Impegno e contraddizioni di un mondo legato indissolubilmente ai carburanti fossili
Di greenwashing in Formula 1 si parla da molto prima che in tutti gli altri sport. Il termine compare ad esempio in un pezzo del Guardian della primavera 2009. La foto di copertina immortala la Honda della stagione precedente con, al posto della normale vernice, una foto satellitare della Terra. Quel modello era sparito già l’inverno dell’anno prima, così come le promesse di sostenibilità della Formula 1, che in realtà risalivano al 2006. Nell’estate di quell’anno il presidente della Fia Max Mosley aveva posto all’intero sport obiettivi da raggiungere. «Risparmiare carburante, risparmiare energia è del tutto fondamentale», aveva dichiarato. «La ricerca tecnologica della Formula 1 deve essere diretta alle aree rilevanti delle auto comuni e a beneficio della società». Quella prima flebile spinta portò allo sviluppo del kers, sistema che recupera l’energia cinetica prodotta in frenata e la trasforma in elettricità. Introdotto nel regolamento a partire dal 2009, il kers ebbe alterne fortune e sembrò subito una foglia di fico per i problemi d’immagine della Formula 1. Prima di vedere un impegno serio si dovrà aspettare un altro decennio, in cui l’unica innovazione rilevante sarà l’introduzione nel 2014 dei motori ibridi, metà a scoppio, metà elettrici. È a novembre 2019, infatti, che la Formula 1 pubblicherà la sua "strategia per la sostenibilità", una presentazione PowerPoint con in copertina una Ferrari che sfreccia davanti a un bosco rigoglioso. Dentro, l’impegno di portare l’impatto delle emissioni dei Gran Premi a zero entro il 2030, anno in cui la Formula 1 intende anche abbassare al minimo le emissioni prodotte dagli spostamenti di squadre e logistica, e di convertire uffici e officine a fonti di energia rinnovabili. Punta di diamante di questa strategia è lo sviluppo per le monoposto di un carburante a impatto zero, termine sfuggente con cui si indica una quantità di emissioni di biossido di carbonio non superiore a quelle già contenute nel carburante stesso. Nei fatti ciò significa il taglio delle emissioni generate dalla combustione del carburante nel motore, con una riduzione totale di circa il 65%. La quota restante dovrebbe essere assorbita da sistemi di cattura delle emissioni, con tecnologie in realtà ancora in sviluppo e di cui non si conoscono bene le prospettive. Parlare di impatto zero è dunque fuorviante, ma è vero che lo sviluppo di simili carburanti avrebbe il grande vantaggio di non richiedere l’enorme sforzo di conversione tecnologica che invece è alla base della svolta elettrica che sta interessando il settore automobilistico (e anche la Formula 1 stessa, che si è portata avanti lanciando la Formula E). A fine giugno, ad esempio, il pilota più attento alle questioni ambientali, Sebastian Vettel, ha fatto correre con uno di questi carburanti la Williams con cui Nigel Mansell vinse il Mondiale 1992 (se l’era comprata tre anni fa per 2,7 milioni di sterline).
L’idea della Formula 1 è di presentarsi come un laboratorio capace di sviluppare nuove tecnologie adatte anche alle auto da strada, producendo vantaggi per il mondo intero nella lotta contro l’emergenza climatica. Sembra cosciente della sua influenza sul resto del mondo e in questo senso lo sviluppo di un carburante a basse emissioni sarebbe il suo successo più luminoso, perché permetterebbe di agire subito, senza aspettare la difficile e lunga ascesa dell’elettrico, che comunque la Fia non rinnega. «Nei suoi 70 anni di storia», dice nel PowerPoint l’ex amministratore delegato di Formula 1 Chase Carey, «la Formula 1 è stata pioniera nello sviluppo di tecnologie e innovazioni che hanno contribuito positivamente alla società e hanno aiutato a combattere le emissioni». Per rendere questo messaggio visibile, la Formula 1 punta soprattutto su ciò che è in vista e che noi vediamo ogni settimana, cioè i Gran Premi. I problemi della Formula 1, però, sono molto più grandi. Nello stesso documento che fissa le linee guida della sua strategia, ad esempio, c’è una stima delle emissioni generate ogni anno dallo sport nella sua totalità, ed è chiaro che quelle prodotte dalle monoposto in gara sono in realtà una frazione quasi trascurabile. Più precisamente lo 0,7% delle oltre 256mila tonnellate di CO2 che produce una singola stagione di Formula 1, l’equivalente di quanto produrrebbero 55mila automobili da strada guidate per un anno. La grande maggioranza di queste emissioni in realtà è dovuta alla logistica (45%), cioè allo spostamento in giro per il mondo delle gomme, delle vetture e dell’equipaggiamento delle squadre, e agli spostamenti dei lavoratori coinvolti (27,7%), compresi i viaggi di lavoro di partner e sponsor. Per il taglio di queste emissioni i piani della Formula 1 sono meno chiari. Parliamo dell’uso di container più leggeri e di aerei più efficienti, oltre alla centralizzazione del personale che si occupa del broadcasting e al trasferimento in remoto di molte mansioni. È difficile però capire l’impatto di queste misure su una quota che si avvicina ai 3/4 delle emissioni totali, specie nel momento in cui la fine delle preoccupazioni per la pandemia sta togliendo ogni limite agli spostamenti aerei. Proprio come l’emergenza climatica nella sua totalità, la fetta più grande di emissioni sarà abbattuta con misure complesse di cui, da fuori, sarà difficile valutare l’impatto. Non esiste un silver bullet per questa quota di emissioni, come amano ripetere i dirigenti della Formula 1, sapendo che ciò permetterà di guadagnare tempo. D’altra parte chi è che rinfaccerà questi propositi alla Formula 1 nel 2030, se anche solo una parte sarà stata raggiunta?
La vera sfida si gioca già oggi, e su un piano più grande, che ha a che fare con la stessa esistenza di questo sport in un pianeta che si scalda ogni anno di più e dove l’emergenza climatica è sempre più al centro dei pensieri. La stagione è cominciata il 20 marzo in due delle monarchie del Golfo che più fanno profitto della dipendenza dai combustibili fossili, cioè Bahrain e Arabia Saudita. A Sakhir, in Bahrain, tutti e venti i piloti si erano uniti in una foto dietro uno striscione con scritto "No War" e una bandiera ucraina. La settimana successiva, a Jeddah, la Formula 1 ha involontariamente ricordato all’Europa che la guerra non sta bruciando solo il suo giardino di casa. Durante le prove libere, dietro al circuito si vede innalzarsi un’immensa colonna di fumo nero. In pista, Verstappen si insospettisce e chiede via radio al suo ingegnere: «Sento odore di bruciato, viene dalla mia macchina o da quella di un altro?» In realtà sta bruciando un impianto petrolifero della Aramco, compagnia petrolifera saudita con cui la Formula 1 sta sviluppando il carburante carbon-neutral (che poi neutral non è). È a 15 km dalla pista ed è stato colpito da un razzo dei ribelli yemeniti Houthi, con cui l’Arabia Saudita è in guerra da anni.
Una decina di giorni dopo il Circus della Formula 1, dopo le tappe in Australia e Italia, va per la prima volta nella sua storia a Miami, negli Usa. In pista Sebastian Vettel si presenta con una maglietta eloquente. Al centro un casco con un boccaglio, intorno la scritta: "Miami 2060, il primo Gran Premio sott’acqua: agite adesso o nuotate dopo". «Sono sorpreso che stiamo andando in un posto che non ci sarà più tra 50 anni, e che tutti facciano finta di niente», dice il pilota tedesco. Vettel, con Lewis Hamilton, è diventato negli ultimi mesi il pilota più aperto nel discutere le contraddizioni politiche alla base della Formula 1. A metà giugno appare in Canada con un casco ancor più provocatorio: "Fermate l’estrazione delle sabbie bituminose, il crimine climatico del Canada". Le sabbie bituminose sono rocce da cui, con tecniche di estrazione ad alto impatto ambientale, si può estrarre petrolio, e una delle zone di maggior concentrazione si trova in Alberta, Canada. Non a caso, una delle reazioni più veementi al casco di Vettel è arrivata proprio dal governo dell’Alberta, con un messaggio che pare un attacco all’intera Formula 1. «Ne ho vista tanta di ipocrisia negli anni, ma questa le supera tutte», ha scritto la ministra dell’Energia dell’Alberta Sonya Savage su Twitter. «Un pilota dell’Aston Martin, sponsorizzato dalla Aramco, che si lamenta delle sabbie bituminose. Aramco ha la più grande produzione giornaliera di petrolio di tutte le aziende del mondo. È l’azienda che più di tutte contribuisce alle emissioni dal 1965. Invece di demonizzare le sabbie bituminose, che sono sulla strada verso l’impatto zero, le persone potrebbero trovare un modo per diminuire il proprio impatto. Forse una monoposto a pedali?».
In realtà Vettel non ha mai scansato le sue responsabilità, anche prima del Gp del Canada, e ciò rende il messaggio della ministra Savage più subdolo di quanto già non sembri. In un’intervista alla Bbc di metà maggio, Vettel si era detto consapevole che le sue posizioni critiche lo avrebbero esposto a simili accuse: «Sono domande che mi faccio ogni giorno, non sono un santo». È ironico, comunque, che si metta in discussione l’onestà intellettuale dei piloti che espongono un pensiero critico sul loro stesso lavoro proprio mentre la Formula 1, tra tutti gli sport, è diventata il centro del dibattito sull’emergenza climatica. Pochi giorni dopo che il tedesco fece correre la monoposto di Mansell col carburante carbon-neutral, durante il Gran Premio di Silverstone (Gb) gli attivisti climatici Just Stop Oil occuparono la pista durante il Gp in segno di protesta. Un’iniziativa definita «completamente irresponsabile e pericolosa» dall’amministratore della Formula 1 Stefano Domenicali, ma che sarà sostenuta da alcuni piloti, cioè chi davvero poteva rischiare qualcosa in pista. «È bello che ci sia gente che lotta per il pianeta, abbiamo bisogno di più persone come loro», dichiarerà dopo la gara Lewis Hamilton, con la Mercedes costretta a specificare successivamente che «Lewis stava sostenendo il loro diritto a protestare, ma non il metodo scelto». Dopo i comunicati stampa e le preoccupazioni legittime sulla sicurezza dei piloti, sono arrivate immagini e foto: colonne di poliziotti che spostano di forza delle persone e il loro striscione con scritto "Basta con il petrolio" su una pista circondata da sponsor della Aramco. Chi riuscirà a scorgerci la contraddizione che sottintendono? A queste foto la Formula 1 continuerà a rispondere con presentazioni PowerPoint e documenti programmatici che le permettono di presentarsi come la frontiera più avanzata dello sviluppo tecnologico contro l’emergenza climatica, mentre le case automobilistiche e le compagnie energetiche fanno a gara per avere spazio nella sua vetrina. La Formula 1, ora anche attraverso il successo della serie Netflix ‘Drive to Survive’, offre una visibilità che non ha pari, e adesso anche la possibilità di presentarsi come chi sta contribuendo alla salvezza del pianeta, ribaltando del tutto l’immagine avuta finora. Tra le case automobilistiche che più sgomitano c’è il gruppo Volkswagen, che a maggio ha annunciato l’entrata di due suoi brand (Porsche e Audi) come motoristi a partire dal 2026. Il suo amministratore delegato Herbert Diess nel dare l’annuncio ha definito la Formula 1 la leva più importante per aumentare il valore del marchio. Nel 2026 saranno passati poco più di dieci anni dallo scandalo sulle emissioni dei suoi motori diesel che per un attimo sembrò addirittura minacciarne l’esistenza.