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L'Inghilterra in finale è un inno al calcio invece che al circo

Concreta, brutta, raramente spettacolare. Ma la squadra di Southgate è all'ultimo atto degli Europei come i funamboli spagnoli che tanto fanno innamorare

Avanti tutta!
(Keystone)
12 luglio 2024
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“Gloria per l’Inghilterra”, titola il sobrio Times. “Watkins porta l’Inghilterra nella terra dei sogni”, scrive il filosofico e progressista Guardian. “Oh, Wat a night”, gioca il Telegraph. L’apoteosi, come al solito, coi tabloid. Il Daily Mail: “Il super sostituto Watkins accende l’Inghilterra nella gloria dell’ultimo minuto”. “Finalmente il calcio torna a casa?”, mette le mani avanti l’Express. “Yes! Olé!”, scrive il poliglotta Mirror anticipando la finale con la Spagna. Sono queste le risposte giuste – assieme al “Siamo a un passo dall’immortalità” urlato al triplice fischio da Sam Matterface su Itv1 – per quel tipo che, sul divano e con due lattine di sidro vuote sul tavolino, aveva accompagnato con un solenne e tonante «Ma che c**** fai Gareth!!!» il vederlo sostituire, sull’1-1 a dieci minuti dalla fine contro l’Olanda, Foden e Kane con Palmer e Watkins. Ogni riferimento allo scrivente e al suo divano è puramente casuale. Quello che è certo, invece, è che per la prima volta nella sua storia l’Inghilterra raggiunge una finale in un torneo disputato fuori casa. Come è certo che se per una volta i Tre Leoni hanno vinto meritatamente, è altrettanto vero che questa partita l’ha vinta Gareth Southgate. Prima superando la sua nota testardaggine e la sua passione perfettamente corrisposta per il calcio brutto e noioso, poi inventandosi un cambio di modulo – passando a un 3-4-2-1 raramente visto prima – che per il re degli zucconi, anche un po’ altezzosi, ha dell’incredibile.

L’Europeo dell’Inghilterra e di Southgate è un commovente inno alla bellezza della mediocrità, e di come la rocciosa concretezza, il “palla al centravanti e vediamo”, il fare due-cose-due buone in novanta minuti, valga esattamente come il calcio champagne della Spagna, le prodezze di Lamine Yamal e i tocchi di Dani Olmo. Entrambe in finale, inni nazionali, palla al centro e vinca non il migliore, ma chi farà un gol più dell’avversario. Altro sidro è già in frigo, le Tyrrell’s al cheddar e quelle all’aceto sono pronte e con pure i tempestivi auguri di Buckingham Palace – finora comunicativamente attivo soprattutto nell’informare di tumori e chemioterapie – non c’è davvero paura di niente.

Perché non è questione di essere migliori, a questo punto. È questione di essere pratici, forse anche un po‘ mediocri e consapevoli che si può romanzare finché si vuole sul calcio, ma alla fine lo scopo è buttare un pallone dentro una rete. Il come è del tutto relativo. L’Inghilterra di Southgate è una squadra estremamente pratica, che gioca come deve giocare e bada al sodo senza perdersi nella ricerca di arte calcistica da lasciare orgogliosamente ad altre culture del pallone che, per un inglese, insomma, anche no. Ed è proprio Gareth la summa di questo discorso: in sella da otto anni, in tre occasioni su quattro tra Europei e Mondiali è arrivato almeno in semifinale. Il tutto, dopo aver ereditato i fallimenti di Hodgson e aver ricostruito quasi da zero. Sempre giocando tutto tranne che bene, sempre convinto come un incursore, sempre con quell’aria nobile e lo sguardo di uno cui non bisogna mai dire niente perché ci arriva da solo. Forse ci ha messo otto anni, ad arrivarci e invertire la rotta: l’ex difensore della nazionale Jamie Carragher sul Telegraph di ieri ha scritto che dopo aver cambiato (ancora) Kane nessuno può dirgli che gli manchi il coraggio: “Ha imparato la lezione e ora non c’è alcuna ragione per cui l’Inghilterra non possa avere successo nella finale”.

Nel mentre, ed è cronaca, in questi anni i funambolici spagnoli che tanto fanno innamorare chi mostra di appassionarsi più al circo che al football, di allenatori ne hanno cambiati tre, raccogliendo magre figure. Finirà come finirà. Ricordando che erano i Pink Floyd in ‘Time’ a dire che “la via inglese è resistere in una tranquilla disperazione”.

E insomma siamo qua, a rabbrividire ogni volta che si legge o sente da qualche parte ‘It’s coming home’, a chiedersi se sarà una finale spettacolare o brutta come il peccato – più la seconda della prima, a naso – e se, soprattutto, finalmente Harry Kane alzerà un trofeo. Ha scelto di non farlo col Tottenham (e, da tifoso, dagli torto...), per continuare il suo digiuno al Bayern Monaco nella peggior stagione dei bavaresi da oltre dieci anni a questa parte. Quella di domenica potrà essere la notte dell’Inghilterra, del calcio ma anche la sua. Le storie di Gareth e Harry meritano il lieto fine.