Dopo 34 anni, Armando Ceroni è giunto all'ultimo torneo al seguito della Nazionale. ‘Non mi sento un personaggio, ho solo provato a regalare emozioni’
Dall’ottavo di finale con l’Italia, ogni partita può essere l’ultima. Per la Nazionale svizzera, così come per la voce che dalle frequenze della Rsi l’ha accompagnata negli ultimi decenni, quella di Armando Ceroni. Per il noto telecronista, Euro 2024 sarà l’ultimo grande torneo al seguito della Nati. Da Italia 90 a Germania 2024, un lunghissimo viaggio che l’Asf e la dirigenza della squadra elvetica hanno voluto ricordare proprio prima della sfida contro gli Azzurri. Invitato nell’albergo che serve da campo base per la delegazione rossocrociata con la scusa di un’intervista con Pier Tami, direttore delle squadre nazionali, lo staff elvetico ha riservato a Ceroni una piccola cerimonia d’addio… «L’idea è venuta a Xherdan Shaqiri, il quale mi ha regalato la sua maglietta della partita con l’Ungheria. Un pensiero che, lo devo ammettere, mi ha commosso».
Sessantacinque anni il prossimo ottobre, Armando Ceroni cederà il testimone della Nazionale, tuttavia non se ne andrà definitivamente in pensione… «Non per il momento, almeno. Continuerò a collaborare con l’azienda, ma non mi occuperò più di telecronache, tanto meno di quelle della Nazionale, al seguito della quale ho avuto la possibilità di vivere un periodo stupendo. E, ci tengo a sottolinearlo, la decisione non è stata mia, bensì dell’azienda. Da ottobre in poi mi occuperò soprattutto di raccontare storie, con una sorta di podcast filmato».
Trentaquattro anni lungo i quali, per raccontare le peripezie della Nazionale, ha conosciuto mezzo mondo… «La parola “conosciuto”, a dire il vero, è esagerata. Certo, questo lavoro mi ha dato la possibilità di viaggiare, tuttavia quando lavori hai davvero poco tempo a disposizione per apprezzare e scoprire i luoghi in cui ti trovi. Mi rendo conto di non aver visto moltissimo, in questi anni. Certamente non è stato come andare in vacanza. Inoltre, io mi sono sempre lasciato assorbire dalla mia professione, una dedizione un po’ all’antica che deriva dall’educazione impartitami da mia madre, per la quale l’etica del lavoro è sempre stata un aspetto fondamentale della vita. Di conseguenza, il conto è presto fatto: viaggiare per lavoro di per sé limita la possibilità di immergerti davvero nei luoghi in cui ti trovi, se ci aggiungiamo un impegno “full time” per quella che è la mia professione, di tempo a disposizione ne rimane davvero pochissimo».
In questi decenni, appoggiandosi su un modo tutto suo di approcciare le telecronache e su un uso a volte singolare della lingua (sul web si trova una pagina dedicata alle sue frasi più celebri), Armando Ceroni è diventato un personaggio… «Sinceramente, questa etichetta non me la sento addosso. Ho sempre e solo cercato di fare del mio meglio, anche se so benissimo di avere, rispetto al passato, un modo diverso e più originale di commentare un avvenimento sportivo. In un certo senso, sono stato una sorta di pioniere, ho fatto scuola e ho aperto un filone nuovo nel modo di raccontare un avvenimento sportivo. I miei vecchi maestri avevano uno stile completamente diverso, ma io sono fatto così, ho iniziato in questo modo fin dagli esordi. E non è stata una scelta ricercata, è proprio che io sono così. È una maniera di far passare le emozioni oltre il teleschermo, figlia del mio modo di esprimermi, di un’originalità che ho sempre avuto fin dai tempi della scuola, ma altresì figlia della mia grandissima passione per lo sport. Una passione che se ce l’hai dentro, in qualche modo devi riuscire a trasmetterla agli spettatori. Il linguaggio conta, la competenza pure, ma è altrettanto importante saper creare delle emozioni in chi ti ascolta e se sei tu il primo a emozionarti per quanto stai vedendo, diventa più facile coinvolgere anche il fruitore».
Di emozioni in tutti questi anni ne ha vissute e trasmesse a iosa. Due, però, gli sono rimaste appiccicate addosso… «E contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sono legate né al gol di Shaqiri contro la Polonia a Euro 2016, né a quello di Gavranovic contro la Francia a Euro 2020. Sono due episodi dello stesso Mondiale, quello in Brasile del 2014. Il primo è il gol di Di Maria in Svizzera-Argentina, con l’errore di Lichtsteiner che dà via libera a Messi e la conclusione del Fideo sulla quale Benaglio avrebbe potuto fare molto di più. Mi ero incavolato come non mai, tanto da scagliare via la penna che tenevo in mano, andata poi a colpire uno spettatore in tribuna. L’altro episodio è legato all’esordio contro l’Ecuador e al gol del 2-1, firmato da Seferovic al 93’. È il gol dell’incredibile azione di Behrami e io ho iniziato ad accalorarmi già per il salvataggio di Valon nell’area di rigore svizzera. Da lì alla rete di Seferovic è stato tutto un crescendo di intensità, con l’incredibile tackle di Behrami a centrocampo, l’assist di Mehmedi e la deviazione di Haris per il gol della vittoria. In quell’azione box to box è come se avessi commentato quattro gol in un colpo solo. In seguito, quello spezzone di telecronaca è servito allo staff rossocrociato per caricare la squadra negli spogliatoi prima delle partite successive».
Trentaquattro anni durante i quali il mestiere di giornalista è cambiato radicalmente e non soltanto nel modo di commentare. Ancora negli anni Novanta si viaggiava sullo stesso volo della squadra, spesso si soggiornava nello stesso hotel, sia viveva un contatto diretto e privo di filtri con i giocatori, si entrava direttamente negli spogliatoi a fine partita… «Sono trascorsi trent’anni, ma sembra sia passata una vita, per quanto a volte mi sembra che tutto l’ambiente si prenda un po’ troppo sul serio, anche se ho l’impressione che a livello di Nazionale svizzera l’ambiente continui a essere un po’ più rilassato rispetto ad altre realtà. Al giorno d’oggi – e parlo soprattutto per il mezzo televisivo, perché per i giornalisti della carta stampata godono di qualche spazio di manovra in più – tutto è programmato nei minimi dettagli e non puoi fare altrimenti, perché l’apparato è diventato talmente gigantesco che se non sei supportato da questo tipo di organizzazione non riesci a far niente. Il contatto con i giocatori e con lo staff è tutto standardizzato, mentre all’inizio non era così, si poteva ancora improvvisare. A questo proposito, mi ricordo a metà degli anni Duemila, un ritiro della Nazionale in Oman. Mi trovavo nell’albergo della Svizzera e stavo parlando con alcuni giocatori, al che mi è venuta l’idea e ho detto ad Alex Comisetti “Vieni che ti faccio un’intervista, ma andiamo a farla in spiaggia, mentre giochiamo a pallone”. Detto fatto, abbiamo deciso io e lui e siamo andati. Oggi un’iniziativa come quella sarebbe impensabile. È tutto regolamentato, standardizzato. Ripeto, da quei tempi sembra che sia trascorsa una vita intera».
Un altro aneddoto che la dice lunga su quanto siano cambiati i tempi… «Metà degli anni Novanta, a quei tempi ero ancora un bordocampista. Siamo a Berna, per le qualificazioni agli Europei, nevica e fa un freddo becco. In panchina è seduto Türkyilmaz che mi dice “Vieni qui, abbiamo le coperte e ti scaldi un po”. E io vado. Roy Hodgson, a quei tempi selezionatore rossocrociato, mi vede seduto lì e non fa una piega, poi passa il cameraman che riprende la panchina e, ovviamente, filma pure me. Si trattava di una partita ufficiale e ciò nonostante non è successo assolutamente nulla. Chi al giorno d’oggi facesse una cosa simile, passerebbe un brutto guaio e, come prima cosa, si vedrebbe ritirato l’accredito. Per dirti come è cambiato non tanto il calcio, quanto il sistema calcio».
Nella vita professionale di Ceroni non c’è stato soltanto il pallone. La sua altra grande passione è stato il ciclismo, con una ventina di Tour de France all’attivo… «Non li ho mai contati e potrebbero essere addirittura di più. A dire il vero, le mie prime telecronache le ho fatte proprio sul ciclismo. È una disciplina che continuo tutt’ora ad apprezzare, nonostante non l’abbia mai praticata: non sono un atleta, sono un giocatore, per cui ho bisogno dell’aspetto ludico per riuscire a divertirmi. Ed è paradossale, perché anche adesso che non ho più l’impegno della cronaca, il finale di una tappa del Tour continuo a guardarlo con interesse, nonostante il ciclismo rimanga una disciplina piuttosto avara sotto l’aspetto dello spettacolo e dell’adrenalina. Tuttavia, per quanto in questi anni sia pure lui cambiato, quello delle due ruote continua a essere un ambiente nel quale il contatto umano con corridori e dirigenti rimane abbastanza facile. Al Giro delle Fiandre, ad esempio, mi sono ritrovato al colpo di pistola dello starter, in mezzo al gruppo mentre intervistavo Fabian Cancellara: un’azione equivalente nel calcio sarebbe assolutamente impossibile, al contrario rimango convinto che nel ciclismo anche al giorno d’oggi certe iniziative le si possono ancora prendere».
Poi, però, a livello professionale il ciclismo è finito in soffitta… «Nel 2004 ho deciso di non più seguire il Tour de France. Una decisione non facile, ma la nostra è una professione che impone grandi sacrifici a livello familiare, si lavora nel weekend, spesso di sera e molte volte in trasferta. Tra Tour, Mondiali ed Europei, senza contare le Olimpiadi – dalle quali sono rimasto letteralmente folgorato e che ho iniziato a seguire dal 2008 – non riuscivo più a vedere i miei figli, per cui ho deciso a malincuore di rinunciare alla Grande Boucle».
Chiudiamo tornando a Euro 2024 e alla sfida tra Svizzera e Inghilterra. Pronostico? «Rigori e non mi sbilancio sulla vincitrice». Insomma, Nati e Ceroni potrebbero non avere ancora finito il loro idillio...