A pochi giorni dal ventennale della morte del campione, due libri ne raccontano le imprese ma soprattutto il carattere, certo non convenzionale
Quando penso a Marco Pantani non penso mai solo a un corpo e nemmeno a un corpo fuso a una bicicletta da gara, non a quello, non soltanto a quello. Intanto lo ricordo e lo immagino – pedalare, scattare, scartare di lato, stringere gli occhi, tagliare il traguardo – mai in giornate di sole, mai con la luce che taglia quella figura esile e la sua bici, eppure Marco era una creatura fatta di luce, come pochi altri campioni, vado d’istinto a Roger Federer, a Diego Maradona, a Michael Jordan, e naturalmente a Fausto Coppi. Ecco, Marco Pantani nel mio immaginario appare come una costola luminosa uscita da Fausto Coppi un paio di curve prima del Passo dello Stelvio. Mai in giornate di sole, ma sempre nella nebbia, sotto la pioggia battente, con neve, vento e ghiaccio ai bordi delle salite verso le sue montagne. D’accordo, è abbastanza facile, chiunque ricordi il Giro d’Italia o il Tour de France di quegli anni (e comunque in generale) sa bene che tra Alpi e Pirenei è più facile trovare burrasca che bel tempo, è più facile tremare per il freddo che sudare per il caldo. Gli unici a sudare eravamo noi sulle poltrone di casa, attaccati alle radio o davanti ai televisori, e prima ancora di vedere in mezzo alla tempesta Pantani scattare lo immaginavamo ascoltando la voce di Adriano De Zan (che ha smesso tra il 1999 e il 2000, manco a farlo apposta negli anni in cui è finita la favola del pirata).
Si è tolto la bandana, cominciavamo i nostri minuti felici. Pantani non emergeva dalla nebbia o dal temporale, era figlio di quel freddo e di quella umidità, le completava come qualcosa di mistico, era la candela che rimaneva accesa al centro di una chiesa poco frequentata. Una estensione liturgica della nebbia. Sembrava il fine ultimo del maltempo e il suo scioglimento in lieve miglioramento in vista del traguardo. Era la grandine che gli altri non riuscivano a scansare, a sostenere, a schivare, a raggiungere. Si sarebbe potuto dire anche di lui come per Coppi: «Il ragazzo è come grandine sulla vigna». Era una preghiera per credenti e non credenti, era l’immagine della sofferenza fino alla fine, se si sorrideva era dopo il traguardo, e non subito. Dopo la fine dell’agonia, come avrebbe confessato a Gianni Mura, quella che lo spingeva ad andare così forte in salita. Tra pochi giorni saranno passati vent’anni dalla tragica, triste morte di Marco Pantani e certe volte mi pare che siano passati secoli e altre, più numerose, mi sembra sia accaduto ieri sera. Chi ha tifato Pantani, quasi tutti gli appassionati di ciclismo di quegli anni, si è commosso per la morte, ha pianto, così come era rimasto sgomento il cinque giugno del 1999 quando si seppero i risultati dei controlli antidoping, il livello di ematocrito troppo alto e tutto quello che ne scaturì, morte compresa. Nessuno è entrato nell’anima di Marco Pantani, nessuno di noi può nemmeno sfiorare l’idea di comprendere il livello di disperazione e il grado di solitudine che lo presero e lo accompagnarono fino alla fine.
Chi scrive è quasi certo che Pantani lo abbiano fregato, la maggior parte degli appassionati lo pensa. Per avere questa certezza non serve andare a leggere le documentazioni, gli atti delle inchieste o quello che volete, non siamo nel campo della cronaca, ma in quello dell’amore, nel campo della salita, del ragazzo esile che scartava di lato e che a un certo punto pareva avesse un motorino, a un certo punto pareva essere il solo su una bicicletta normale, mentre gli altri pedalavano spingendo ruote di cemento. Questa certezza nasce dall’amore e dal sapere che uno che va così forte va forte e basta, va troppo più forte degli altri per non essere un campione vero. Marco Pantani lo è stato, non abbiamo dimenticato. Per provare a rileggere quella figura ci tendono la mano due libri molto belli, uno lo ha scritto Marco Ciriello e si intitola: ‘Marco Pantani. Alto sui pedali. Una vita alla rovescia’ (Sperling & Kupfer, 2023); il secondo libro lo ha scritto Marco Pastonesi: ‘Pantani era un Dio’ (66thand2nd, nuova edizione 2024) ed esce proprio in questi giorni. Si tratta di due libri molto diversi che se letti insieme paiono in qualche modo andare a completarsi.
Marco Ciriello con il suo tipico passo poetico, con il suo immaginario molto vasto (che non teme di mettere la fantasia al servizio della realtà), va all’indietro e parte dalla sera della morte di Pantani, il 14 febbraio del 2004. Procede a ritroso, Ciriello, così come se le cadute anticipassero le risalite e le salite, e le vittorie, e i trionfi. Ciriello ribalta la tragedia e fa coincidere molte nascite con le vittorie indimenticabili e le fratture emergono a Madonna di Campiglio e dopo nella solitudine dell’uomo fragile, adorato da tutti, invidiato dai suoi colleghi (ma pure amato), ai quali non ne lasciava mai una. Per Ciriello, Pantani è un eroe, che domina Giro e Tour, e che poi va via da solo da qualche parte a sparire, di schiena, senza telecamere in faccia, motociclisti Rai che ne riprendono ogni pedalata, ogni espressione, ogni nuova ruga che compare sul viso che si contrae. La costola di Coppi attraversa il Paese, incontra volti, è un evento negli eventi, è l’uomo forte in salita, ed è lo specchio dell’Italia e il suo corpo morto è uguale a quello di Pasolini, a quello di Aldo Moro. È il monumento che si vede dalla strada che porta al mare, è una poesia che abbiamo scritto da ragazzini e che non finiamo di leggere, di provare a correggere. Non ci piace il finale (anche se funziona), ma che bello l’incipit, che meraviglia quella strofa centrale.
In ‘Pantani era un Dio’, Marco Pastonesi costruisce un coro, un insieme di voci che racconta il pirata, dall’infanzia a dopo la morte. I gregari di Pantani, che lo amavano oltre a stimarlo, come racconta Pastonesi, sono un simbolo, la segnaletica che indica la strada per capire meglio l’amore che si provava e ancora si prova per lui. Pastonesi è molto bravo a tenere insieme tutto e a sospendere il giudizio e a far venire fuori la storia, così come è accaduta, così come è cresciuta, così come è viva nella nostra memoria, come quella candela che brilla sola al centro della chiesa. Esiste un culto di Pantani, Pastonesi lo sa, e ci ricorda che è un culto esteso anche ai suoi avversari, anche loro lo amavano, e continuano a rispettarlo all’indietro, era meglio perdere da Pantani che da qualcun altro. Da uno meno forte. Dal racconto di Pastonesi emerge (come in Ciriello) l’aspetto anarchico di Pantani, uno che non sapeva stare nel sistema, uno che non studiava nemmeno troppo i percorsi, era tecnica, sofferenza e istinto, uno a cui il sistema in qualche modo l’ha fatta pagare. Pantani che rifiuta di essere sponsorizzato dalla Fiat e sceglie la Citroën, la Fiat che è azionista di Rcs, che a sua volta con la Gazzetta dello Sport organizza il Giro. Eccetera. Pastonesi sa come si usa il coro, ed ecco, dopo i gregari, il massaggiatore, ed ecco i meccanici, quelli che lo hanno conosciuto davvero, prima, durante e dopo i trionfi. In ‘Pantani era un Dio’, viene fuori l’uomo fragile giù dalla bici, l’uomo candela che quasi si spegne, l’uomo luce fioca, l’uomo che non sa come fare per salvarsi. Pantani ha vinto poco più di 30 corse, ma noi le ricordiamo tutte ed è questa una delle differenze rispetto ad altri che hanno vinto più di lui. Se ci concentriamo siamo capaci di ricostruire un distacco in cima a una salita senza dover andare a controllare su Wikipedia.
Questi due libri aiutano a far memoria, possono essere utili a chi non ha conosciuto Pantani e anche a chi non lo ha mai amato, chi lo ritiene solo un drogato o un tossico forse deve farsi un giro tra le pagine, non serve nemmeno la bicicletta. Quanto a me, non c’è settimana che io non vada all’indietro (senza bisogno di YouTube) e ripercorra i momenti di alcuni scatti, di istanti decisivi che hanno coinciso con pomeriggi di gioia immensa. Pantani è come Maradona, è andato oltre lo sport, lo si è raccontato in mille modi, il dramma, la cronaca, si sa, tendono a oscurare la gloria e la gioia, eppure la sua essenza è là, basta riavvolgere il nastro. Ed ecco il Giro del 1998, e i quattro minuti e oltre dati ad Alex Zülle, sulle salite della Marmolada, del Pordoi e del Passo Sella. Ed ecco Tonkov crollare un chilometro prima dell’arrivo a Plan di Montecampione, incapace di resistere agli attacchi, marchio di fabbrica di Pantani. Ed ecco il Tour, il freddo e la pioggia e l’attacco a Ulrich sul Galibier – un incredulo Ulrich – mancavano una cinquantina di chilometri al traguardo, alla fine, stremato da Pantani e da una condotta di gara tatticamente sbagliata, il tedesco arrivò al traguardo di Les Deux Alpes con quasi nove minuti di ritardo. Che felicità.
O al Giro del 1999, qualche giorno prima della squalifica, quando ebbe un problema alla catena che favorì gli avversari che lo attaccarono. Pantani si innervosì ma soprattutto si incazzò e li riprese uno per uno, arrivando a vincere a Oropa senza esultare, metti mai che non li aveva davvero superati tutti. In una poesia d’amore molto bella di Antonio Porta, si legge di un viaggio «[…] ma tu passi tra bagliori dei temporali / e mi telefoni per dirlo: “non c’è / traffico, l’autostrada è quasi deserta, / sto arrivando non ci sono più ostacoli”», delle poesie, è noto, ne facciamo ciò che vogliamo, e allora Porta ci racconta anche di tutte le volte in cui Pantani ci ha telefonato a poche curve dal Mortirolo o dal Galibier, dopo aver fatto il vuoto, per dirci che stava arrivando «non ci sono più ostacoli».