L’incredibile storia del Pallone d’oro maradoniano del 1986, quando Diego vinse il Mondiale: sparito, riapparso e oggi al centro di una querelle
In una calda sera di mezza estate australe del 1996, a Mar del Plata, Diego Armando Maradona e Jorge Burruchaga tornano a incrociarsi a dieci anni di distanza dai fasti del Mundial messicano: Diego, che sta scontando i quindici mesi di squalifica comminati durante il Mondiale statunitense per assunzione di sostanze proibite, è già alla seconda avventura improvvisata da allenatore, e stavolta siede sulla panchina del Racing de Avellaneda; Burru indossa la maglia numero 7 dell’Independiente, è reduce – anche lui – da una lunga squalifica per il coinvolgimento nel caso di corruzione che ha portato al disfacimento l’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie.
Dieci giorni prima di quel clásico d’estate, a Parigi, nella sede di France Football, Maradona ha finalmente ricevuto il Pallone d’Oro. Nell’anno dell’estensione dell’assegnazione ai calciatori extraeuropei, il vero vincitore – quello sul campo – è risultato George Weah. Eppure, nella sede della rivista parigina, è sembrato a tutti una buona idea assegnare un Pallone d’Oro, come dire, alla carriera a Diego. Alle sue spalle, nelle foto, ce n’è una fatta ai tempi dei suoi esordi con l’Argentinos Juniors. Indossa un doppiopetto gessato grigio chiaro, Diego, una camicia bianca e una cravatta tempestata di stelle bizantine, simili a quelle del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. Ha i capelli corti, le rughe, la faccia scolpita dalle fatiche di essere un mito. Solleva il trofeo con la mano destra, il polso cinto da un orologio d’oro. Quel Pallone d’Oro, nel luglio del 2014, brucerà insieme a molte altre memorabilia, in un incendio che si porterà via il primo piano della sua casa storica a Villa Devoto.
Deve esserci una sorte di maledizione, nel legame tra Diego e i palloni d’oro. Il 13 novembre 1986, al cabaret Lido di Parigi, gliene hanno consegnato uno, più piccolo di quello tradizionalmente assegnato da France Football: è il premio destinato al miglior calciatore del Mondiale di Messico ’86, e Diego è stato incontestabilmente il più forte della competizione che, di fatto, ha sancito lo scollamento dalla sua dimensione terrestre, l’ascensione alla sfera divina. Diego ha trascinato l’Albiceleste a una vittoria in cui non credeva nessuno, inscenando – nel cuore del torneo – uno dei momenti più epitomici della sua parabola dorata nel firmamento calcistico, quei cinque minuti in cui è riuscito a concentrare tutta la ‘viveza criolla’ e la sublimazione del talento: cinque minuti iniziati con la Mano de Dios e terminati con El gol del siglo.
Indossa una giacca di paillette rilucenti sui toni del verde, una camicia a strisce, una cravatta di seta grigia. Solleva il minipallone d’oro con la mano sinistra, quella di Dio. Stringe il piedistallo di questo Azteca in miniatura, sorridente, al fianco di Harald Schumacher, il portiere della Germania Ovest che nel torneo messicano è stato finalista e miglior portiere, nonostante le incertezze in finale. Anche quel minipallone d’oro scomparirà, tre anni più tardi. Ma non per sempre. Una manciata di settimane fa, dopo decenni in cui sembrava essere stato inghiottito dal nulla, è infatti ricomparso, quasi magicamente, portandosi dietro una storia incredibile, bizzarra tanto quanto le teorie che hanno circondato la sua sparizione. Maradona nel suo prime, a metà anni Ottanta, negli anni del trionfo messicano e del successivo primo storico Scudetto a Napoli, è un acceleratore di possibilità: il prisma attraverso il quale l’impossibile riesce a diventare non solo possibile, ma addirittura plausibile. Di quel riconoscimento ricevuto in una serata di gala al Lido, della sua sparizione, circolano molte versioni, tutte parimenti assurde, tutte parimenti verosimili.
C’è chi dice che lo abbia perso in una mano di poker, e chi sostiene che sia servito a coprire debiti contratti con la camorra per questioni di droga. C’è la versione secondo la quale, nel 1989, otto malviventi vestiti da operai e con i volti coperti da maschere da personaggi della Disney, durante una pausa pranzo, si siano intrufolati attraverso un buco scavato nella parete di un locale adiacente all’interno del caveau di una banca napoletana in cui El Diego custodiva alcuni dei suoi averi.
In un documentario chiamato “11 Tiros”, una serie di episodi true crime che esplorano fatti di cronaca nera legati al mondo del calcio, i giornalisti riescono a intervistare Michelangelo, uno dei componenti di quella banda, poi divenuto camorrista, sicario e oggi collaboratore di giustizia. Michelangelo conferma la teoria del furto, una tesi che, in quel periodo, era stata decisamente funzionale a Maradona, alla ricerca di un pretesto per abbandonare Napoli, la gabbia dorata nella quale aveva trovato la gloria ma che lo stava strangolando: le offerte miliardarie dell’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie lo tentavano, e Diego all’ombra del Vesuvio non riusciva più a essere quella macchina di felicità che tutti si aspettavano. Era diventato un oggetto xenomorfo.
Quello che Michelangelo non conferma, però, è la prosecuzione della teoria, secondo la quale il trofeo – stando a quanto Salvatore Lo Russo in persona avrebbe confessato a Maradona durante un tentativo di recuperare il cimelio – sarebbe stato fuso e trasformato successivamente in lingotti. A rendere impossibile questo scenario, non foss’altro, contribuisce il fatto che il trofeo, semplicemente, non era d’oro. Ad accorgersene sarebbe stato un collezionista d’arte franco-algerino, Abdelhamid B., nel 2017, dopo nove mesi di perizie. Abdelhamid è la persona che, al momento, conserva quel trofeo che tutti – incluso Maradona, fino alla sua morte – credevano scomparso per sempre.
Ne è entrato in possesso nel 2016, acquistando all’asta una cassetta di sicurezza per poche centinaia di euro. Ad attirare la sua attenzione erano stati due busti d’arte contemporanea: all’interno, però, aveva trovato anche numerose altre chincaglierie, un centinaio di piccoli trofei in plastica, uno in falso marmo e questa sfera aurea, dal cui piedistallo era stata rimossa la placca, che a tutta prima ha pensato essere un premio relativo alla pallamano – qualcosa che fa sorridere, se si pensa al fatto che tra i moventi di quel riconoscimento c’è anche la mano de Dios. Nello scatolone, inoltre, Abdelhamid ha rinvenuto anche uno scarpino dorato: la Scarpa d’Oro assegnata a Marco Van Basten per la stagione 1985-86. Il fatto che la cassetta di sicurezza vinta da Abdelhamid sia stata battuta alla casa d’asta Drouot, che si trova a pochi chilometri dal cabaret Lido, lascia presagire che entrambi i trofei, quella sera, siano stati semplicemente, come dire senza dover soffocare una risata, dimenticati tanto da Van Basten quanto da Maradona.
A rendere particolarmente interessante il ritrovamento, ovviamente, è la bagarre che si è sviluppata nell’esatto momento in cui Abdelhamid ha scelto – dopo essere riuscito a ricondurre il trofeo a Maradona, e quindi prefigurando un incasso monstre – di far battere all’asta a sua volta il premio. Secondo la legge francese, gli oggetti aggiudicati all’asta da persone ignare della storia criminosa pregressa dell’oggetto stesso – se non viene sporta denuncia o reclamo nel giro dei tre anni successivi – diventano definitivamente proprietà dell’acquirente. Abdelhamid e la casa d’aste Aguttes che ne cura gli interessi sostengono che, una volta appurata l’origine maradoniana del premio, hanno cercato di mettersi in contatto con la famiglia del Diez, compito nondimeno rivelatosi tutt’altro che semplice «quando sei un emerito Signor Nessuno in Francia». I legali della famiglia di Maradona, dalla loro, sostengono che non si può parlare di buona fede dell’acquirente, dal momento che la storia della sparizione è nota, e lo stesso Diez, nella sua biografia Yo soy el Diego, ne fa cenno.
Nel 2022, Sotheby’s ha battuto all’asta la maglia indossata da Diego Armando Maradona nel quarto di finale mitico, giocato contro l’Inghilterra, la partita dei suoi due gol più celebri, per quasi nove milioni e mezzo di dollari che hanno decretato le fortune di Steve Hodge, il calciatore inglese con il quale l’aveva scambiata a fine partita. Il pallone finito per due volte nella porta di Shilton in quello stesso epico match, sempre nel 2022, è stato venduto per due milioni e mezzo di dollari, per la gioia, stavolta, dell’arbitro Ali Bennaceur che lo aveva conservato.
Il Pallone d’Oro come miglior giocatore del Mundial ’86, secondo le stime, potrebbe fruttare ad Abdelhamid B. una cifra intorno ai dodici milioni di dollari, sempre che l’asta riesca mai a tenersi: i legali della famiglia, che hanno sporto ricorso, sono riusciti a procrastinare la data dell’assegnazione del trofeo, che si sarebbe dovuta tenere il 6 giugno. Il mito di Maradona sembra destinato a passare attraverso l’inevitabile processo di smantellamento – e monetizzazione – della memoria. Diego disse un giorno che la pelota no se mancha, il pallone non si macchia, non si sporca. Forse, visto quanto sta accadendo, non è del tutto vero. Ad ogni modo, ci vorrà ben più di un’ulteriore polemica per far sì che il suo mito si affievolisca.