Franz Beckenbauer, mito planetario del pallone, si è spento domenica a 78 anni a causa di una malattia; vinse il Mondiale sia da giocatore che da tecnico
Il Kaiser – mai soprannome fu più azzeccato – se n’è andato pochi giorni dopo la morte di Mario Zagallo, un altro che, proprio come lui, fu capace di vincere il Mondiale prima da giocatore e poi da tecnico. Inutile dire, dunque, che il tedesco è stato fra i grandissimi della storia del pallone, probabilmente fra i migliori dieci in assoluto, di certo il più grande di ogni epoca fra i tedeschi.
Prototipo del libero moderno, difensore capace di giocare a tutto campo, elegante da far invidia a Scirea e provvisto di una personalità dirompente, Beckenbauer ha rappresentato a lungo il volto nuovo della Germania, quella nata dopo gli ignobili anni del nazismo che avevano fatto giustamente odiare l’intero popolo teutonico.
Franz, ammirato e rispettato ovunque, era infatti nato in un quartiere operaio di Monaco nel settembre del 1945, quando da pochissimo la nazione aveva iniziato la propria uscita dalle tenebre, e fu anche grazie alla sua grandezza e ai suoi successi sportivi se i tedeschi, rientrati nel consesso civile, riuscirono infine a farsi sdoganare agli occhi del mondo.
Difensore capace di dribblare come un’ala e di segnare come un 10, col Bayern e con la Germania occidentale vinse l’impossibile – Mondiale, Europeo, Coppe dei campioni – e privatamente si concesse il vezzo di mettere in cascina ben due Palloni d’oro, che per uno del suo ruolo è senz’ombra di dubbio evento unico e irripetibile.
Piedi educati e cervello ancor più fino, seppe fin da giovanissimo coltivare rapporti, amicizie e relazioni che gli garantirono, una volta sfilate le Adidas, una carriera ad altissimi livelli in seno al Bayern (giocatore, allenatore e infine presidente), alla Federazione tedesca e in orbita Fifa – di cui divenne numero 2 – dove si distinse, insieme al sodale Blatter, in attività per dirla tutta non sempre pulitissime: in diverse assegnazioni ‘sporche’ di Campionati del mondo ci fu infatti il suo raffinato zampino. Ma siccome dei defunti – specie a dipartita appena avvenuta – bisogna soltanto parlar bene, ci soffermeremo soprattutto sulla sua immensa classe in campo, che come detto ne fece uno degli interpreti più eleganti e al contempo efficaci non solo della sua generazione ma dell’intera storia del gioco.
Caduto vittima del fascino del pallone a 12 anni, ben presto pareva destinato a vestire la maglia del Monaco 1860, all’epoca considerato il più prestigioso club bavarese. Ma il matrimonio non si farà, perché in un torneo per ragazzini rimediò uno schiaffo proprio da un giocatore di quella squadra e decise di accasarsi presso i rivali cittadini del Bayern, società che con lui – e grazie a lui – diverrà la più importante e la più vincente del calcio tedesco.
Insieme a califfi come Sepp Maier e Gerd Müller fece grande oltre al Bayern pure la Nazionale, che dopo l’inatteso exploit del Mondiale svizzero del 1954 aveva a lungo stentato a ritrovare un posto di rilievo nelle gerarchie continentali e planetarie. Prima di riuscirci, però, dovette pagare un pegno pesante, due sconfitte d’altissimo lignaggio: era infatti in campo sia a Wembley nella finale mondiale vinta dagli inglesi con qualche aiutino nel 1966, sia nel penultimo atto iridato di quattro anni più tardi – la famosa partita del secolo dell’Azteca – quando col braccio legato al collo per via di una clavicola fratturata (immagine che fece di lui un eroe imperituro) venne sconfitto 4-3 dagli italiani.
Scontato il fio – e ormai maturato al punto giusto come giocatore – vinse come detto ogni competizione a cui prese parte e, dopo aver coperto di gloria sé stesso e le sue squadre, cedette alle lusinghe americane: per una valanga di dollari a trentadue anni varcò l’Oceano per andare a dispensare arte al Cosmos di New York, dove un’altra stella assoluta – Pelé – già da qualche anno cercava di lanciare il soccer nel Paese del football. I detrattori (pochi ma tenaci) gli daranno del mercenario e del giocatore finito, capace ormai di misurarsi soltanto coi brocchi, e così deciderà di tornare in Bundesliga, stavolta ad Amburgo, per dimostrare che i critici sbagliavano: vincerà infatti un altro titolo tedesco con la maglia del club anseatico prima di tornare nella Grande Mela per firmare l’ultimo suo contratto da giocatore.
Nell’84, dopo aver giurato che non sarebbe mai diventato allenatore, accettò di dirigere la Nazionale del suo Paese reduce dalla mancata qualificazione all’Europeo francese. Due anni più tardi raggiunse la finale mondiale, di nuovo all’Azteca, in cui la Mannschaft fu sconfitta dall’Argentina di Maradona, contro cui riuscirà a prendersi la rivincita – con la complicità dell’arbitro messicano Codesal – nella finalissima di Roma nel 1990. Prima di lui solo Zagallo, come detto, era riuscito ad alzare la Coppa da giocatore e poi da tecnico, e dopo di lui soltanto Deschamps seppe fare altrettanto.
Da allenatore dell’OM, il Kaiser lavorò pure (senza fortuna) per Bernard Tapie, un altro dalla fedina penale non del tutto immacolata. Salvo un paio di mandati a interim sulla panca del Bayern, di cui di lì a poco diverrà reggente insieme a Rummenigge e Hoeness, quella marsigliese sarà la sua ultima panchina.
Più famoso e più ascoltato di un ministro, Beckenbauer fu per oltre un trentennio opinionista per la Bild, il più popolare dei fogli tedeschi. Travolto dalle polemiche per le losche manovre in seno al governo del calcio mondiale di cui abbiamo già fatto menzione, si trasferì allora in Austria, a Salisburgo, dove si ammalò di cuore, venne più volte operato e perse infine l’uso dell’occhio destro. Minato nel corpo e nell’animo, da tempo non si mostrava più in pubblico: la sua ultima apparizione all’Allianz Arena per seguire il Bayern risaliva all’agosto del 2022.
«Il Kaiser è morto», ha detto ieri Michel Platini, altro fuoriclasse assai chiacchierato ma indiscutibilmente intenditore di pallone. «Con lui scompare uno dei miei compagni di viaggio», ha aggiunto, «uno che con Pelé, Crujff e Charlton ha nutrito la mia passione per il gioco. Franz è stato il padre fondatore del calcio tedesco».