Alla base delle controprestazioni della nazionale negli ultimi mesi, oltre alle mancanze del Ct, c'è anche l'atteggiamento superficiale dei giocatori
Mercoledì sera, al termine dell’ennesima controprestazione dei rossocrociati del pallone – ormai incapaci di battere Romania, Kosovo, Bielorussia e Israele – non sono stati pochi a chiedere la testa di Murat Yakin. Tranquilli, vien da dire a costoro, il selezionatore perderebbe il suo incarico soltanto nel caso la Svizzera non dovesse riuscire a qualificarsi per la fase finale di Euro 2024. Ma ciò è assai improbabile che accada, praticamente impossibile: innanzitutto perché il sorteggio ci ha regalato un girone debole in modo vergognoso, e poi perché il grosso del lavoro, malgrado tutte le brutture viste in questi ultimi mesi, risulta ormai fatto. Solo una congiunzione astrale mai verificatasi negli ultimi dieci miliardi di anni, infatti, potrebbe buttar giù gli elvetici dalla scaletta dell’aereo che la prossima primavera inoltrata li porterà in Germania.
Il Ct, dunque, resterà saldamente al suo posto almeno fin dopo i Campionati continentali, benché sia palese che non goda delle simpatie – non solo degli appassionati – ma pure di buona parte dei suoi stessi giocatori, che a cominciare dal capitano Granit Xhaka non si fanno troppi scrupoli a criticare la gestione tecnica della squadra. Del resto, ne hanno ben donde: Yakin, in questi due anni e rotti di mandato, non ha certo mancato di stupire per l’estemporaneità delle sue convocazioni – ha il vezzo ad esempio di non chiamare mai alcun terzino destro – e per il surrealismo di certe sue scelte tattiche prima – o nel corso – delle gare.
Giocatore di qualità indiscutibile, Yakin non si è però mai rivelato granché una volta divenuto allenatore, e il fatto che praticamente mai sia riuscito a dirigere un club per più di una stagione non depone certo a suo favore.
Oltretutto, quando i vertici federali fecero cadere su di lui la scelta dell’uomo che avrebbe dovuto sostituire il dimissionario Petkovic, veniva da un’esperienza da tecnico dello Sciaffusa nel campionato cadetto, era dunque poco più di un dilettante: non certo un biglietto da visita da star della panchina. La decisione, dunque, non mancò di far discutere.
Murat, però, ha sempre goduto di uno smisurato apprezzamento nella Svizzera tedesca, sia popolare sia a livello di stampa, doti che in seno all’Asf sono assai considerate, anche perché rappresentano una preziosa carta da giocare con gli sponsor, che quando c’è di mezzo Yakin non esitano ad aprire con generosità il portafoglio.
La buona sorte, ad ogni modo, col basilese non ha avuto un occhio di riguardo solo quando si è trattato di individuare un nuovo Ct per il dopo-Vlado, ma ha continuato a essere assai benevola nei suoi confronti anche quando, all’inizio della propria missione, a Murat riuscì il miracolo di qualificare la squadra al Mondiale qatariota per la via più diretta, chiudendo cioè il proprio gruppo eliminatorio al primo posto, davanti all’Italia che aveva appena conquistato il titolo europeo.
E parliamo di prodigio perché, al di là di qualche innegabile merito di tecnico e giocatori rossocrociati, se Jorginho non avesse sbagliato addirittura due rigori contro Sommer, a conquistare il primato nel girone sarebbero stati gli azzurri, e noi alla Coppa del mondo nemmeno ci saremmo andati, anche perché per staccare il biglietto per Doha avremmo dovuto battere nel playoff – dopo la Macedonia del Nord – anche il Portogallo di Cristiano Ronaldo, squadra che poi incrociammo nella fase finale, agli Ottavi, e tutti ricordiamo come andò a finire, dato che ci rifilò ben sei sberloni.
Detto del tecnico, che come visto è gravido di colpe e carenze, non possiamo però certo assolvere i giocatori, che in quest’ultimo anno di brutte figure ne hanno collezionate in numero ormai imbarazzante.
Sarebbe infatti ingiusto imputare alle sole scelte di Yakin – per quanto come detto sciagurate – la qualità assai carente delle prestazioni fornite dai rossocrociati specie nelle ultime gare, che – fatta eccezione per quella contro Andorra – sono tutte terminate con pareggi di cui provare onta, non solo per la mancata conquista della posta piena, ma soprattutto per l’atteggiamento mostrato in campo, spesso e volentieri irritante, superficiale, senza mordente e foriero di errori imperdonabili.
Non può essere insomma solo il selezionatore a finire sul banco degli imputati se uomini determinanti nei rispettivi club – fra cui squadre di prestigio e tradizione a livello continentale – una volta infilata la casacca della Nazionale sembrano i loro cugini scarsi. Certe letture sbagliate, certe ingenuità da quarta lega non possono dipendere esclusivamente dalle scelte tattiche del coach: i ragazzi, insomma, ci mettono del loro, e ciò risulta evidente.
Yann Sommer, ad esempio, difende la porta dell’Inter, compagine che lo scorso anno sfiorò la conquista della Champions League, e lo fa al meglio, essendo la retroguardia nerazzurra una delle meno battute del continente. Eppure, quando veste i colori della Nazionale incappa immancabilmente in cappellate e indecisioni. Idem per Akanji, che la Coppa dalle grandi orecchie la scorsa primavera l’ha addirittura alzata col Manchester City: in rossocrociato pare invece un difensore qualsiasi, spesso in ritardo e poco autorevole nel guidare i compagni di reparto.
E lo stesso si può dire per Xhaka, che nella Bundesliga è senza discussioni il miglior centrocampista in assoluto, ma che in questa campagna continentale ha attraversato momenti di abulia che fanno venir voglia di prenderlo a cinghiate e che inevitabilmente finiscono per prestare il fianco alle bordate dei suoi detrattori, pronti a rinfacciargli di volersi impegnare a fondo più per la causa politica di Kosovo e Albania che per quella – sportiva – rossocrociata.
A venir meno, nei momenti di blackout in cui così frequentemente è precipitata questa Nazionale, è stata proprio la leadership che, in un passato nemmeno troppo lontano, sapevano sprigionare giocatori come Behrami e Lichsteiner, e che Granit può soltanto sognare. Si tratta, d’altro canto, di un segno dei tempi.
Come mi spiegava un allenatore di Super League, il ‘liderazgo’ e l’idea di un gruppo compatto sono concetti che stanno scomparendo perfino nei club, dove il contatto fra i giocatori è quotidiano, figuriamoci se non devono sparire dalle nazionali, dove ci si ritrova solo per pochi giorni ogni due o tre mesi e l’occasione viene considerata solo come un impiccio.
La chiamata nella selezione – a meno che non si tratti di squadre con ambizioni di podio a livello continentale o mondiale – torna utile solo come vetrina per procurarsi un buon ingaggio in un campionato importante, ottenuto il quale diventa invece solo un fastidio, una corvée che, per sua stessa natura, non porta alcun tornaconto economico, e alla quale si rinuncerebbe volentieri, se non fosse praticamente obbligatorio ottemperarvi, e dunque i giocatori vi si sottopongono controvoglia e con una certa sufficienza.
Del resto, lo ha detto bene l’altra sera lo stesso Valon in tv: i calciatori oggi pensano a sé stessi come a imprese commerciali individuali, e il senso di appartenenza al gruppo è ormai soltanto uno sbiadito ricordo dei bei tempi andati.