CALCIO

La Libertadores regala al Fluminense la ‘Gloria eterna’

Battuto il Boca Juniors nella finale di Rio de Janeiro. A Cano risponde Advíncula, ma nei supplementari ci pensa John Kennedy

Al terzo piano del civico 205 di rua Professor Euríco Ribeiro ci sono 22 maglie del Fluminense appese per tutta la lunghezza del terrazzo. Due piani più in su, stesso palazzo, altro terrazzo, le maglie le portano addosso, ma sono del Boca Juniors. Uno indossa la divisa vintage di Diego Maradona, un altro ha sulla schiena la scritta Roman (a celebrare Riquelme, l’altro grande 10 della squadra di Buenos Aires). Ci sono altre sagome, tutte – tranne una – rigorosamente in tenuta da calcio, ma non riesco a distinguerle: troppo lontani dal marciapiede. Troppo fumo che esce da quel terrazzo, e dall’altro. Non è nemmeno mezzogiorno, ma al quinto piano è il momento dell’asado, al terzo quello del churrasco, che è poi la stessa cosa, eppure no. Tra quei due mondi non c’è solo un piano nel mezzo, a dividerli, ma c’è tutta la distanza – a volte minima, a volte siderale – tra due popoli, quello argentino e quello brasiliano.

Mentre sono davanti al portone del civico 205 con il naso all'insù, in strada passano una cinquantina di poliziotti a cavallo. Oltre c’è il Maracanã: in quel momento mancano poco più di cinque ore alla finale di Coppa Libertadores tra Boca Juniors e Fluminense. E penso che solo in questo angolo di mondo, dove pubblico e privato si mescolano fino a essere una cosa sola e dove la maglia della squadra del cuore non la metti solo allo stadio, ma in giro, al lavoro, ai matrimoni e – talvolta – perfino dentro la bara, ci possa essere un legame tra la "Gloria eterna" (il motto della Libertadores) e la prossima riunione di condominio.

In quel momento gironzolare per le strade che circondano lo stadio ha un effetto straniante, da videogioco distopico alla "The Last Of Us": in giro solo polizia e militari, tanti palazzi che avrebbero bisogno di una rinfrescata sui cui muri sono montati chilometri di filo spinato intervallati da cocci di bottiglia appuntiti. In un angolo, oltre il filo spinato, c’è il Flu Esquina, un club di tifosi il cui sottotitolo è "Fluminense, Churrasco e Cerveja": il simbolo è un Homer Simpson con cilindro e barba alla Abramo Lincoln, in una mano un boccale di birra, nell'altra la spada della picanha. A rendere il tutto un po’ più sordido, la musica che fuoriesce dal cancello, "Gangsta's Paradise".

Tifosi del Boca visti sino a quel momento, a parte quelli sul terrazzo: due. Ma arriveranno, quasi tutti assieme, due ore più tardi. E quelli della "Doce", i più caldi, troveranno anche il tempo di scontrarsi con la polizia.

Nel frattempo mi imbatto sia nel Papa che in Babbo Natale, due personaggi entrati ormai nel folklore locale e nazionale: il primo si chiama Severino Mendes, ha 60 anni ed è di Brasilia, tifosissimo del Flu, ci tiene a dirmi: "Sono papa da 19 anni". Ha la tonaca e una papalina in testa, le scritte sono – come si conviene – un misto di sacro e profano. Si legge "Abençoados sejam os tricolores" ("Siano benedetti i Tricolori", e cioè quelli della Flu), sulla papalina invece un più new age "Non rinunciare ai tuoi sogni", sulla stola verde "Il papa è tricolore". Quella frase fa il verso a una battuta che circola dai tempi del conclave che nel 2013 elesse sul soglio pontificio Bergoglio, e che hanno detto un po’ tutti, compresi due presidenti brasiliani politicamente all'opposto come Dilma Rousseff e Jair Bolsonaro: "Il Papa è argentino, ma Dio è brasiliano". Quel che è certo è che le benedizioni di Severino Mendes sono prese molto sul serio dalla Torcida, e che il suo pontificato – sebbene immaginario – è durato molto più di quello del vero Papa Severino, eletto il 15 ottobre del 638 e morto il 2 agosto 640.

Due strade più in là passeggia Marcelo Amorim, in arte Papai Noel Tricolor: ha il barbone e il cappello d'ordinanza (con spilla del Fluminense), i bermuda rossi con l'orlo bianco e una cintura che somiglia a quelle dei pugili campioni del mondo. Seppur con qualche difficoltà fa di tutto per sfilarsi il cinturone e farmi vedere bene la scritta "Papa Noel Tricolor" sulla schiena. Come se quella scritta certificasse davvero qualcosa.

Intanto gli ambulanti, infischiandosene delle scaramanzie, fanno affari vendendo praticamente a tutti quelli che passano una fascia con le facce di tutti i giocatori e la scritta "Campeão Libertadores 2023, titulo inedito".

Il "titulo inedito" fa parte della doppia maledizione che questa coppa si portava appresso e che aveva a che fare con le due finaliste (e d'ora in poi solo con una). Quella del Boca la si fa risalire al 2018, quando ha perso la finale col River Plate che nessuno a Buenos Aires poteva permettersi di perdere, ma è iniziata un po’ prima, nel 2012, quando è stato sconfitto dal Corinthians. Era la prima volta che il Boca si trovava a un passo dalla sua settima Libertadores. Vincendo quel confronto avrebbe raggiunto l'Independiente come numero di titoli vinti. E invece, due finali dopo, è ancora lì a rincorrere l'Independiente e anche il fantasma della partita con il River.

L'altra maledizione era quella del Fluminense, che solo una volta aveva raggiunto la finale di Libertadores, nel 2008, perdendola, da strafavorito, contro gli ecuadoriani della Ldu di Quito. Quella sconfitta non è mai andata giù alla tifoseria, che ha sempre sofferto di un complesso d'inferiorità rispetto alle altre grandi del calcio brasiliano, tutte (a eccezione del Botafogo) con almeno una Libertadores in bacheca: Santos, Flamengo, Grêmio, Internacional, Corinthians, Cruzeiro, Vasco da Gama, San Paolo, Palmeiras e Atlético Mineiro.

E così, quando al 72’ il peruviano del Boca Advíncula segna l'1-1 che manda le squadre ai supplementari, i tifosi del Fluminense – che erano in festa dal 36’, minuto del vantaggio del bomber German Cano, dodici partite e 13 gol in questa Libertadores – temono che non sarà la loro maledizione quella destinata a spezzarsi. Con l'aggravante di assistere a un tonfo nello stadio di casa in una finale unica, disgrazia sportiva che li avrebbe accomunati a pochi altri club al mondo (la Roma con il Liverpool nel 1984 in Coppa Campioni, il Bayern Monaco nel 2012 in Champions League contro il Chelsea, lo Sporting Lisbona nel 2005 in Coppa Uefa contro il Cska Mosca).

Il Flu attacca, il Boca difende

C’è un perché più grosso degli altri in questa disperazione preventiva: il Boca è la prima squadra nella storia della Libertadores a essere arrivata in finale senza vincere nemmeno una partita nei tempi regolamentari. Due pareggi e vittoria ai rigori agli ottavi, stessa cosa nei quarti e in semifinale. Sembra un epilogo già scritto.

Fino a quel momento la partita aveva avuto un unico copione, il Fluminense di Diniz, nuovo profeta del calcio offensivo brasiliano (alla guida sia del Flu che della Nazionale, in attesa di Ancelotti) all'attacco e il Boca a difendersi. La tattica degli argentini è semplice: ridurre la partita all'osso, portare le occasioni altrui al minimo con il rischio di non averne nemmeno una, come se i rigori fossero l'unica soluzione contemplata.

In campo e in panchina ci sono diversi nomi noti, tra vecchie promesse mancate (Benedetto da una parte e soprattutto Ganso dall'altra) e – per chi segue meno il calcio sudamericano – un po’ di "guarda te dov’è finito" (Romero, Marcelo, Cavani) e "pensavo avesse smesso" (Roncaglia, Felipe Melo, Ganso).

Vicino a Cano, c’è Keno, con un'assonanza degna di una coppia d'attacco di Holly&Benji, mentre dall'altra parte Cavani combatte con il suo passato, soprattutto quando in una delle poche azioni pericolose del Boca al posto di spaccare la porta come ai tempi del Napoli torna indietro senza un motivo. L'altro nome atteso del Boca, il 19enne Barco, pare invece sopraffatto dalla pressione. È come se alcuni giocatori del Boca fossero rimasti intontiti quanto noi della tribuna stampa bis (vicino alla linea del fallo laterale, accanto ai tifosi del Fluminense), troppo vicini alle casse da cui, prima dell'inizio della gara è partita a tutto volume una playlist che sembrava uscita da un chiassoso bar di Ibiza, con brani come "La Gasolina" ("Como le encanta la gasolina, dame mas gasolina…") e "Obsesión" ("No es amor lo que tú sientes, se llama obsesión"). In quei minuti di caos organizzato, con al centro del campo un'enorme riproduzione della Coppa Libertadores, c'era stato spazio per balletti e sbandieratori, con la trama delle bandiere rossobiancoverdi del Fluminense a ricordare un raduno di Forza Italia.

Nel secondo tempo aumentano i falli e le scorrettezze, il muro di tifosi del Boca non smette un attimo di cantare e accanto a me c’è un tifoso del Fluminense con la maglia numero 17 e la scritta Jajá che si sente il capo ultrà anche se non sta in curva: passa la partita a lanciare cori che nessuno segue e si sbraccia spazientito quando migliaia di persone che lo ignorano non fanno quello che chiede lui. Il ruolo di capo ultrà riesce molto meglio a Felipe Melo, che una volta sostituito passa più tempo girato verso gli spalti che verso il campo: carica i tifosi, canta e chiama tutti allo sforzo collettivo con gesti plateali, aiutato nel ruolo dalla barba da predicatore.

John Kennedy, nella storia in 20 minuti

Mentre la partita scivola verso i supplementari a riassumere il fascino e la follia della Libertadores e le esagerazioni del calcio sudamericano entra in campo John Kennedy (il padre lo ha proprio chiamato così, perché anche Kennedy è il nome, "mio papà è appassionato di storia di più non so dire. E sì, a scuola mi prendevano in giro", taglia sempre corto lui alla fatidica domanda), soprannominato ovviamente JK: entra all'80’, all'89’ è ammonito, al 99’ segna la rete decisiva del 2-1, al 100’ viene espulso dopo essersi buttato in mezzo al pubblico per festeggiare il gol. Tutto in venti minuti. Da quel momento il Boca capisce che si può anche attaccare, e lo fa, lasciando in molti l'idea che con un po’ di coraggio in più poteva finire diversamente: invece si arriva per sfinimento al fischio finale tra calcioni, sceneggiate, richieste di Var continue e un altro rosso, a Fabra del Boca.

Parte la musica mentre Felipe Melo, sempre lui, dirige le danze; ti giri e il grande muro dei tifosi del Boca – più di 20mila persone – non c’è più, come volatilizzati da un qualche trucco di magia. Arriva la Coppa e anche tutto il Carnevale calcistico che uno può immaginarsi a Rio.

A fine serata ripasso dal civico 205: sul terrazzo del Boca non c’è nessuno, è tutto spento. Su quello del Flu c’è ancora fumo e gente e chiasso e churrasco per tutti. Stanno lì a godersi il loro attimo di "Gloria eterna", finché dura.