Il nuovo allenatore del Bellinzona, in carica da martedì, ci parla dell’impatto col Ticino, della rosa a disposizione e delle sue idee tattiche
Da bordocampo, alle Semine, si ha l’impressione che – malgrado la classifica non troppo incoraggiante – nel gruppo granata aleggi uno spirito molto positivo. Merito senz’altro della prima vittoria in campionato, giunta l’ultimo weekend contro lo Stade Nyonnais, ma molto dipenderà anche dall’arrivo, martedì, del nuovo staff tecnico, che dà sempre una bella carica d’energia. Secondo il nuovo allenatore Mario Rosas Montero, però, c’è pure un’altra ragione: l’età media della rosa che si è trovato a disposizione. «Questi ragazzi sono molto giovani, si vede che amano giocare nel vero senso della parola, benché siano professionisti a tutti gli effetti. C’è una bella comunicazione interna al gruppo, al di là delle difficoltà date dalle molte lingue parlate. E quando si parla molto, si lavora meglio».
Si tratta davvero di una Babele d’idiomi: il nuovo coach dà indicazioni in castigliano, il team manager – che lo segue per il campo come un’ombra – traduce al volo in italiano. Uno dei viceallenatori mastica un po’ di francese, e ogni tanto lo usa. Senza dimenticare l’inglese e naturalmente lo schwitzerdütsch.
Visti i risultati fin qui deludenti, si aspettava di trovare un clima più depresso? «L’arrivo di un nuovo allenatore, prima ancora che a livello tecnico, è positivo per via della botta di entusiasmo che riesce a generare. Solo più avanti, dopo le prime settimane, si vedono miglioramenti anche a livello di risultati. E poi, una volta che arrivano quelli, tutto diventa più facile. Questo gruppo tecnicamente è valido, e meriterebbe una posizione in classifica migliore di quella odierna. Mio compito sarà aiutare i ragazzi a migliorare le cose che già conoscono, e tentare di insegnarne delle nuove».
Ha già avuto modo di vedere le registrazioni delle partite disputate dai granata? «Sì, le ho già visionate tutte, e credo che nella maggior parte dei casi il risultato non è arrivato per colpa di errori individuali del tutto evitabili. Se una squadra rivale ci segna un gol perché fa una giocata eccezionale, è un conto. Non dico che ti metti ad applaudire, ma comunque riconosci il merito dell’avversario. Il problema è quando subisci gol perché fai regali, ed è proprio su questo aspetto che dovremo lavorare».
A livello tattico si è già fatto un’idea del tipo di gioco che vorrà praticare? «Sì, e credo che se riusciamo a correggere alcuni dettagli, miglioreremo presto sia a livello di gioco che di risultati. L’idea di base, al di là dei moduli, è che a me e al mio staff piace un calcio propositivo, un football da protagonisti, con azioni che partono dal basso. Se poi la squadra rivale vincerà, ci può stare, ma per farlo dovrà sudare di brutto».
Conosceva già i giocatori del Bellinzona? «Appena siamo stati contattati, abbiamo subito provveduto a documentarci a fondo, andando a scoprire pregi e difetti di ognuno. Ed è fondamentale arrivare in un Paese e in un calcio nuovo dopo essersi informati come si deve. Significa, per uno staff tecnico come il nostro, visionare un numero enorme di partite di ogni campionato, per farsi un’idea abbastanza precisa delle peculiarità dei vari tipi di calcio. È vero infatti che sempre di calcio si tratta, ma in ogni Paese ci sono elementi caratteristici».
Come ha fatto la famiglia Bentancur a piombare su di voi e a decidere che il vostro staff era proprio ciò di cui aveva bisogno? «Il football è diffuso ovunque, ma in un certo senso è un piccolo mondo. Ci si conosce un po’ tutti, e noi sapevamo che i Bentancur seguivano il nostro lavoro già quando operavamo in Croazia o in Bahrein. Il contatto decisivo, poi, è avvenuto tramite conoscenze comuni».
Da quanto tempo opera coi suoi attuali collaboratori? «Con Ibarra lavoro praticamente da dieci anni, mentre con Diego da cinque, e con Manel da un paio d’anni. Siamo un buon gruppo di professionisti, ma anche noi dobbiamo ancora migliorare sotto qualche punto di vista, perché siamo ancora tutti abbastanza giovani. E quindi ci aggiorniamo di continuo, e correggiamo magari qualcosa nel nostro modo di lavorare, pur restando fondamentalmente fedeli al modello e alle metodologie che abbiamo conosciuto al Barcellona, club in cui si gioca un calcio piuttosto tipico e unico, assai riconoscibile. Vengo da lì, e quello è il calcio che da giocatore ho conosciuto meglio. Poi, ovviamente, si prende un po’ da tutti, se si scorgono cose interessanti».
Il football spagnolo fino a una ventina d’anni fa non era così potente e vincente, mentre ora è diventato un punto di riferimento a livello mondiale e un’autentica scuola da tutti riconosciuta: come mai? «Nell’ultimo ventennio effettivamente è nata una maniera di lavorare e di giocare che si può definire tipicamente spagnola, e il merito è soprattutto del Real Madrid e del Barcellona, più ancora della nostra Nazionale. A livello di gioco, invece, abbiamo reso una forza ciò che pareva invece un nostro limite, cioè la scarsa prestanza fisica di tutta una generazione di giocatori: ciò ci ha costretto a giocare sempre più ‘di fino’, invece di metterla sul piano muscolare come facevamo invece nei decenni precedenti. Ma non sto dicendo che altrove non si giochi bene, eh, in questo voglio essere chiaro. Da tutti si può imparare qualcosa, e dunque anche dal calcio svizzero».
Com’è stato l’impatto con Bellinzona e col Ticino? «Siamo qui solo da tre giorni e ci siamo messi subito a lavorare intensamente, quindi non abbiamo ancora visto nulla. L’impressione comunque è di essere giunti in un luogo molto accogliente, dove la gente tratta bene chi viene da fuori. Siamo arrivati qui umilmente, col desiderio di dare una mano e di realizzare magari qualcosa di bello. Ringraziamo tutti, a cominciare dalla famiglia Bentancur, per l’opportunità e la fiducia che ci ha offerto. Spero che i bellinzonesi possano tornare presto a essere fieri della propria squadra».