Presidente di un Milan stellare e irripetibile, il Cavaliere utilizzò sfacciatamente i successi della squadra quando decise di darsi alla vita politica
«Il fatto che Berlusconi non abbia mai voluto investire nemmeno una lira nel ciclismo mi permette di continuare a pensare che questo sport debba per forza avere qualcosa di buono».
Questa frase di Gianni Mura ci dice molto. Innanzitutto, sulla personalità del miglior giornalista sportivo italiano dell’ultimo mezzo secolo, poi sulla dimensione ancora quasi dilettantesca che avevano le corse in bici fino a pochi anni fa, ma soprattutto sull’innegabile fiuto per gli affari che albergava nel Dna del Cavaliere. Infatti, dove non c’era ritorno - economico o d’immagine - di grana Silvio non ne metteva mai. O, se lo ha fatto, se n’è presto pentito, rimettendosi in tasca ciò che restava sul piatto e lasciando i malcapitati peggio di quanto stessero prima del suo intervento: pensiamo ad esempio al rugby, alla pallavolo e all’hockey su ghiaccio.
Alla fine degli anni Ottanta, infatti, Berlusconi aveva infilato un piede in una manciata di squadre milanesi di varie discipline, tutte cadute in disgrazia. Credeva, così facendo, di poter ripetere in altri ambiti ciò che gli era riuscito col Milan, che aveva rilevato qualche anno prima per due soldi e che, in pochissimo tempo, aveva riportato ai vertici nazionali e continentali. Disponendo di una quantità sterminata di quattrini, proprio come aveva fatto nel calcio si era dunque procurato i migliori rugbisti (Dominguez e Campese), pallavolisti (Zorzi e Lucchetta) e hockeysti (Gates Orlando e Jari Kurri) sulla piazza. E, inevitabilmente, aveva vinto un bel po’ di trofei. La polisportiva Mediolanum ad ogni modo durò solo 5 anni, dall’89 al 94, quando - fatti due conti - il Berlusca capì che da quegli sport, in Italia, ci sarebbe stato da ricavare poco o niente. E tagliò la corda prima che fosse troppo tardi: ecco perché pare un po’ esagerato sentir dipingere in queste ore il cavaliere come una sorta di grande benefattore.
Da dove non tolse mai le tende, lo sanno tutti, è invece il calcio, unico sport per cui gli italiani sono pronti a delirare e a spendere soldi senza remore. È morto, infatti, da presidente in carica del Monza, che col fido Galliani aveva portato fino alla Serie A, ultimo dei suoi innumerevoli successi. E probabilmente ha chiuso per sempre gli occhi convinto che il clamoroso 11° posto raggiunto dai briantei in quest’ultimo campionato sia merito del pullman carico di meretrici che lui stesso aveva promesso ai giocatori se si fossero ben disimpegnati.
Berlusconi era entrato in quel mondo a gamba tesa, con tanto di atterraggi in elicottero a Milanello o in mezzo al campo di San Siro, coperture televisive come non se n’erano mai viste e ingaggi inimmaginabili. Sparando su tutto ciò che si muoveva, si accaparrò tutti i migliori pezzi del mercato - sottraendoli di fatto alla concorrenza - e naturalmente vinse in poco tempo tutti i maggiori trofei planetari.
Ai tifosi milanisti fece credere che Gullit, Van Basten, Savicevic, Weah, Sheva, Baggio, Rui Costa e Kakà fossero un suo regalo personale, mentre in realtà li fece pagare tutti da loro, dal primo all’ultimo centesimo. Del resto, aveva fatto altrettanto coi telespettatori dell’Italia intera, che in cambio di Dinasty e delle tettone del Drive-In aveva rincoglionito e preso in ostaggio con miliardi di ore di spot pubblicitari.
Il mondo del pallone prese a definirlo visionario, innovatore, precursore e portatore di una nuova mentalità liberatrice - all’americana, si disse - ma in realtà era soltanto ricco come Creso, condizione grazie alla quale spesso si riesce a passare pure per un genio.
Ma non lo era: lo fosse stato davvero, sarebbe riuscito a far innamorare i milanesi dell’hockey e del baseball: invece ci provò soltanto, ma senza successo, appunto perché non era né mago né taumaturgo, e imprese davvero impossibili non ne ha mai realizzate. Semplicemente, riuscì a spettacolarizzare - e quindi a monetizzare - ogni risvolto del mondo del calcio, rendendo quello sport… sempre meno sport, esasperando gli aspetti commerciali della faccenda, facendone un prodotto televisivo e dunque un veicolo di pubblicità foriero di un suo sempre maggiore guadagno personale.
La vera fortuna di Berlusconi, nel calcio, era Adriano Galliani, che conosceva perfettamente la materia, spendeva benissimo i miliardi del suo padrone facendogli vincere vagonate di titoli e, soprattutto, sapeva frenarne i deliri d’onnipotenza, come quando ad esempio - in base a una presunta capacità tecnico-tattica che si era attribuito da solo e su cui schiere di lacché erano pronti a giurare - voleva imporre agli allenatori formazione e modulo.
Megalomane all’inverosimile, si inventò l’estivo Trofeo Berlusconi, formalmente intitolato al suo defunto padre, ma dal quale emerge in modo palese l’intento autocelebrativo, che non lo abbandonava mai. Diceva ad esempio di aver corso a 12 anni i cento metri in 11 secondi netti - tempo che a quell’epoca gli avrebbe consentito di salire sul podio olimpico - e lo ripeteva con una serietà imbarazzante: nessuno però aveva il coraggio di fargli notare l’enormità di una tale minchiata. Si paragonava al Papa - lo confidò allo stesso Wojtyla - e acquistava e cedeva i giocatori in base al loro essere fotogenici o meno: con Gullit, comprato solo per la sua ‘presenza scenica’, gli andò bene, ma con Claudito Borghi, ad esempio, gli andò malissimo.
Berlusconi si vantava di avere un radar infallibile per scoprire talenti, salvo poi scaricare la colpa sugli altri quando gli uomini da lui scelti non raggiungevano i risultati sperati. Del Maestro Tabarez - fra i pochi che ebbero il coraggio di dimettersi - dopo averlo canonizzato nel mese d’agosto disse a fine novembre che non lo conosceva e che pareva un cantante di Sanremo. La verità è che fra Silvio e l’uruguagio c’era una incolmabile e irrisolvibile incompatibilità culturale e ideologica.
Del grandissimo Carlo Ancelotti, pur suo fedelissimo, disse invece che… «Nel 2009 abbiamo perso lo scudetto per colpa sua, aveva una squadra di grandi palleggiatori e dovevamo giocare palla a terra, lui invece ha fatto l’esatto contrario», come se una banalità simile rappresentasse una ricetta infallibile. Il trattamento peggiore lo riservò però a Zoff, Ct dell’Italia che nel 2000 fece miracoli per condurre gli azzurri alla finale continentale e che perse il titolo soltanto per un golden goal. «Il tecnico è stato indegno - disse - come l’ultimo dei dilettanti, non si può lasciare libero uno come Zidane». Berlusconi, che ai quei tempi era primo ministro, credeva di poter sparare qualsiasi scempiaggine in virtù dei ruoli che ricopriva e, naturalmente, dei denari che possedeva.
E Zoff, galantuomo tutto d’un pezzo, quando vide che nessuno osava difenderlo per non contraddire il Napoleone della Brianza, rassegnò le proprie dimissioni: con lo stesso coraggio mostrato da Gianluca Vialli quando non cedette alle lusinghe del Cavaliere, e ai miliardi di Segrate preferì le vedute e il profumo del Mar Ligure e di Genova, dove riusciva a godersi la vita come a Milano non avrebbe mai potuto.
A conti fatti, risulta che quanto Berlusconi ha ricevuto dallo sport sia in realtà molto più di quanto lui abbia dato allo sport, checché se ne dica. Il mondo del pallone - col suo seguito sterminato - è stato semmai la base su cui il Cavaliere a metà degli anni Novanta costruì il suo successo politico. Fondando tutto o quasi il suo programma elettorale sul mito del self made man - il miliardario che si è fatto da solo - Berlusconi in campagna elettorale poteva calare carte ad effetto come il suo enorme successo in campo imprenditoriale ma pure, grazie ai successi colti dal suo Milan, nell’ambito sportivo.
E non fu certo un caso che, quando aveva deciso di buttarsi in politica, era stato dalla semantica pallonara che aveva pescato i suoi slogan più efficaci: definì infatti la sua mossa una ‘discesa in campo’ - chiaro riferimento al football - e addirittura battezzò il suo partito Forza Italia, facendo proprio un grido da stadio che apparteneva a tutti i suoi connazionali.