Coppa Svizzera, Pier Tami ricorda il successo del 1993 e l’importanza dell’aspetto mentale: ‘Finale da 50-50, ma il Lugano ha maggiore esperienza’
È uno dei pochi ad aver vestito le quattro maglie storiche del calcio ticinese, mentre la carriera da allenatore è stata legata in primo luogo all’Associazione svizzera di calcio (Asf), con in particolare la medaglia d’argento conquistata nel 2011 agli Europei U21 in Danimarca. Oggi, Pier Tami ha assunto il ruolo di direttore delle squadre nazionali e si appresta a preparare, assieme a Murat Yakin e a tutto lo staff dell’Asf, dapprima gli impegni di Nations League, poi i Mondiali di novembre-dicembre in Qatar. Ma non può dimenticare che quel 31 maggio 1993, ad alzare al cielo la Coppa Svizzera nel vecchio Wankdorf c’era anche lui… «È vero, c’ero. Ma c’ero pure l’anno prima, quando eravamo stati sconfitti dal Lucerna. Mi ricordo ogni minuto della finale vinta contro il Grasshopper, ma pure di quella persa amaramente contro i lucernesi. E posso dire che nel 1993 eravamo entrati in campo con una rabbia, una determinazione, una convinzione nelle nostre possibilità che l’anno precedente non avevamo, sorpresi e schiacciati dall’ambiente e dall’importanza della posta in palio. In poche parole, contro il Gc avevamo già messo le mani sul trofeo prima ancora di scendere in campo. Ho tutt’ora stampata in mente quella formazione, con Walker in porta, io e Morf laterali, Käslin e Galvao in mezzo alla difesa, Colombo, Esposito, Andrioli e Sylvestre in mezzo al campo, Zuffi e Subiat davanti. E mi ricordo la rete di Andrioli, la doppietta di Subiat e il gran gol finale di Fornera... Ero a fine carriera ed è stato stupendo aver avuto la possibilità di disputare due finali consecutive e di vincerne una. La Coppa Svizzera del 1993 la posso tranquillamente considerare come l’apice della mia carriera. Certo, vi sono stati altri momenti importanti, come le partite internazionali o i campionati di vertice con il Bellinzona di Dépireux, ma a conti fatti, quella è stata l’unica opportunità di vincere un trofeo».
Strappato dalle mani di una signora squadra… «Quell’anno il Grasshopper era andato incontro a grosse difficoltà, tanto da essere obbligato a disputare il torneo contro la retrocessione. Al di là delle contingenze del momento, però, quello era un gruppo di tutto rispetto, di assoluto valore internazionale: c’erano Brunner, Vega, Elber, Közle, Alain Sutter, Sforza, Bickel, Koller. E in panchina un mostro sacro come Leo Beenhakker, ex tecnico del Real Madrid. E il nostro successo dimostra come una finale di Coppa Svizzera non abbia mai un vero favorito, nonostante quelli che possono essere i teorici valori in campo. Per vincere occorre giocarsela a tutto gas dal primo all’ultimo minuto. Proprio come avevamo fatto noi».
Dopo quel 31 maggio 1993, la vita di Pier Tami è rimasta legata al pallone, dapprima con il finale di carriera, poi in qualità di allenatore, su su fino ai vertici della federazione. Ha così potuto constatare da vicino l’evoluzione del gioco del pallone… «In questi anni abbiamo assistito a un profondo cambiamento. Per molti anni non avevo rivisto la finale del 1993 e quando mi è capitato di guardarla mi sono reso conto di quanto il calcio avesse conosciuto uno sviluppo, in primo luogo a livello fisico e d’intensità. Non dico che sia un altro sport, ma poco ci manca. Quando analizzi i parametri fisici che stanno dietro a una partita di altro livello, ti rendi conto di quanto sia fondamentale essere un atleta in grado di coniugare forza, resistenza e velocità. Senza queste caratteristiche, al giorno d’oggi non sarebbe possibile sopravvivere nel calcio moderno. Di recente, mi è capitato di rivedere una partita che da ragazzo mi aveva entusiasmato, Italia-Brasile ai Mondiali 1982, e mi sono chiesto se fosse davvero calcio. Al di là dei retropassaggi al portiere ancora consentiti, a balzare all’occhio è stata l’inadeguatezza, per i parametri moderni, di grandi calciatori elegantissimi, ma ampiamente in debito dal profilo atletico, come ad esempio Socrates. Oggi per quel tipo di giocatori non vi sarebbe più spazio. È vero, la preparazione è completamente cambiata e di questo va tenuto conto. Spesso si sente dire che quello era un calcio più tecnico: certo, l’estetica c’era, ma era una tecnica rapportata a quel tipo di gioco, a quella velocità. Il portatore di palla aveva il tempo per pensare e per agire, non c’era pressing, non c’erano raddoppi. Per quanto attiene alle conclusioni in porta, al giorno d’oggi la potenza è nettamente superiore, ma manca il tempo necessario per preparare, dopo il primo controllo, il successivo gesto tecnico. Tutto questo ha portato a un profondo cambiamento nello stile di gioco, per cui i calciatori hanno dovuto essere costruiti dal profilo atletico per dare una risposta a questo tipo di calcio. Non solo l’aspetto tecnico e quello fisico, ma pure la preparazione tattica ha dovuto adattarsi a questa nuova intensità. Ma nonostante i profondi cambiamenti, la finale del 1993 aveva esattamente lo stesso valore di quella che si disputerà domenica al Wankdorf».
Tami, Morf, Esposito, Fornera, Colombo e poi Pelosi e Carrasco nella finale delle Speranze (vinta poche ore prima, sempre contro il Gc): a quei tempi il calcio ticinese sfornava giocatori a getto continuo… «Quella è stata una generazione d’oro, ma va detto che le società facevano di necessità virtù, per cui i ragazzi di casa nostra il posto in squadra lo potevano trovare. Io ho vestito la maglia delle quattro squadre ticinesi in Lnb, ma ho giocato anche quando in Lna vi erano due squadre cantonali, con relativi derby e tanto entusiasmo da parte dei tifosi: in quegli anni il nostro calcio era veramente una forza nel panorama svizzero. E, più in generale, in Svizzera potevamo permetterci stranieri di un livello che al giorno d’oggi sarebbe impensabile per il nostro campionato. Non potremo mai più avere un Mauro Galvao, reduce dai Mondiali 90 in Italia con la Seleçao. Ma quello di Galvao non è l’unico esempio: rimanendo in Ticino, basterebbe pensare a Kurt Niedermayer e Beto Barbas, a Paulo Cesar e Mario Sergio... Ovviamente, la legge Bosman era ancora di là da venire (venne adottata nel 1995, ndr), per cui con le frontiere semi chiuse, per chi voleva mostrarsi sul palcoscenico europeo il campionato svizzero rappresentava una vetrina molto interessante».
Veniamo alla finale di domenica… «Vedo un fattore di vantaggio per entrambe. Il Lugano è la squadra più esperta e matura, soprattutto quando può contare su tutti i suoi effettivi. D’altra parte, il San Gallo è più giovane, sta disputando un’eccellente seconda parte di stagione, ma la giovinezza potrebbe rappresentare un boomerang a livello di esperienza. Nel 1992 contro il Lucerna eravamo arrivati all’atto conclusivo impreparati dal profilo mentale e l’emozione ci aveva giocato un brutto scherzo. A livello di gioco espresso, il San Gallo è in grado di farsi preferire, ma per quanto visto in campionato, potrebbe incontrare difficoltà nel gestire l’importanza dell’evento. Comunque, non vedo una vera favorita, ritengo sia una finale da "fifty-fifty". Occorrerà saper gestire le emozioni e giocarsela senza rimpianti, D’altro canto, i calciatori si allenano e faticano nella speranza di poter un giorno disputare partite come questa…».