Definito il ‘Beckenbauer dell'Est’, il giocatore della Dinamo Berlino morì a 26 anni in un incidente stradale avvolto ancora oggi nel mistero
Vujadin Boškov, in quell’italiano impiastricciato che solo lui, diceva: «Grande giocatore vedere autostrade dove altri solo sentieri». Il 20 marzo 1979 Lutz Eigendorf, centrocampista della Dinamo Berlino, vide un taxi dove i suoi compagni vedevano solo jeans e dischi rock. Stavano facendo una sosta al mercato di Gießen, in Germania Ovest, dopo un’amichevole con il Kaiserslautern. Funzionava sempre così, prima di rientrare, quando una squadra dell’Est faceva tappa oltre cortina: i dirigenti lasciavano ai giocatori la possibilità di spendere un po’ di marchi dell’Ovest, pregiati ma inutilizzabili nella Ddr, per portarsi a casa oggetti, vestiti e musica dell’altro mondo che avevano questo strano odore: puzzavano di capitalismo, ma profumavano di libertà.
Eigendorf, che all’epoca aveva appena 22 anni, ma già appicciata la roboante etichetta di “Beckenbauer dell’Est”, aveva deciso che un’annusata e due souvenir non gli bastavano. Voleva assaporarla per intero, la libertà. E così, prima dribblò chi doveva controllarlo, poi - una volta rimasto solo - diede la sua manciata di marchi al tassista, illudendosi che il prezzo della libertà corrispondesse a quello di una corsa in taxi. Lui non sapeva, in quel momento, che il conto da pagare sarebbe stato molto più caro. Come noi non sapremo mai se quella fuga fosse premeditata o meno. Quel che sappiamo è che, in quel momento, la stella nascente del calcio dell’Est era incurante di tante, troppe cose.
Tanto per cominciare la squadra di Eigendorf non era una squadra qualunque. La Dinamo Berlino era la squadra di Erich Mielke. Ed Erich Mielke era l’uomo a capo della Stasi. E se 2+2 fa 2+2 ovunque – è matematica - figurarsi nella Ddr. La Stasi era Il ministero della Sicurezza o, come fu ribattezzato da tanti, il ministero della Paura. Aveva occhi e orecchie dappertutto. E se perdere le tracce di un proprio giocatore era incomprensibile, perdere le tracce del giocatore più rappresentativo era imperdonabile. Negli anni precedenti era capitato di assistere alla fuga di alcuni calciatori dalla Germania Est. Ma erano perlopiù nomi di seconda fascia, facili da annacquare nel mare magnum delle dichiarazioni anti-capitaliste: venivano bollati come spie dell’Ovest, balordi, traditori. E poi dimenticati.
Eigendorf, però, non poteva essere dimenticato. Tutti lo conoscevano, tutti vedevano in lui il giocatore-simbolo del futuro, quello del definitivo salto nel gotha del cacio internazionale, dopo il famoso gol-vittoria di Sparwasser ai Mondiali del 1974 contro la Germania Ovest e le medaglie ottenute in serie alle Olimpiadi (due bronzi nel ’64 e ’72, un oro nel 1976, che sarà seguito dall’argento del 1980). Aveva esordito in nazionale solo sei mesi prima della grande fuga, segnando – come ogni predestinato – addirittura una doppietta nel 2-2 con la Bulgaria. Il suo tabellino con la maglia bianca e blu della Ddr si fermerà presto: 6 partite e 3 reti.
Per un anno Eigendorf, che ha un accordo con il Kaiserslautern, non potrà giocare. I tedeschi dell’Ovest si offrono di acquistarlo e contattano la Dinamo Berlino: l’affronto non ha prezzo, a quanto pare, e Eigendorf è costretto dalla Fifa a rimanere fermo per un anno. Una regola astrusa, ma non troppo, che colpirà negli anni altri giocatori in fuga dalle dittature e che stupisce fino a un certo punto. La Fifa, infatti, in quegli anni riuscì ad assegnare l’organizzazione di ben due Mondiali consecutivi a due dittature: l’Argentina di Videla nel 1978, la Spagna di Franco nel 1982. Solo la morte del Caudillo e il successivo ripristino della democrazia, consentirono di giocare almeno il Mundial spagnolo in un Paese libero. Come libero era, o credeva di essere, Eigendorf, nonostante lo stop forzato e lo status di rifugiato politico. Intorno a lui, in realtà, si muoveva una rete di persone, tutte spie di Mielke, mandate per controllarlo e indirizzare il più possibile la sua vita. C’è chi parla di addirittura cinquanta persone dedicate all’affare Eigendorf. Probabilmente non erano così tante, di sicuro una di queste era l’ex campione di pugilato della Ddr, Karl-Heinz Felgner. Stando a quel che i due si dissero, Felgner si trovava lì in quanto “persona non grata” nella Germania comunista. Una bugia che lo rendeva l’amico perfetto - e insospettabile - per Eigendorf.
Accerchiato dalle spie all’Ovest, la vita del calciatore veniva manipolata anche a Est per via dell’altro grossolano errore di calcolo fatto durante la fuga. Eigendorf era un uomo sposato. A casa aveva lasciato la moglie Gabriele e la figlia Sandy, di appena due anni. Una donna sola, abbandonata dal marito era la preda perfetta per Lothario. Chi era Lothario? In origine un seduttore del “Don Chisciotte” di Cervantes. Nella Germania Est della Stasi, il nome in codice degli agenti mandati a conquistare il cuore delle donne che il regime, per svariate ragioni, voleva accoppiare. Nel caso di Gabriele, il motivo era chiaro: Eigendorf doveva sapere che la moglie era innamorata di un altro e che in nessun caso avrebbe più rivisto la figlia. L’operazione, dal nome romantico, “Rose”, ebbe successo. Gabriele s’innamorò di uno dei pretendenti e chiese il divorzio. La Stasi fece in modo di far arrivare la notizia ad Eigendorf, che - nel frattempo - aveva ricominciato a scendere in campo. Un discreto giocatore, niente di più, di sicuro non il “Beckenbauer dell’Est”. Un pesce grosso nel piccolo acquario del campionato tedesco orientale, uno tra tanti nella ben più competitiva Bundesliga. Lascerà il Kaiserslautern dopo due anni, 53 partite e sette gol. Da lì iniziò a calare la percezione del suo talento, la voglia di calcio e di conseguenza anche la capacità di cogliere le buone occasioni, di vedere autostrade. Il suo allenatore al Kaisersalutern arrivò a dire che era più interessato a bere e al brevetto di pilota d’aereo che agli allenamenti. E così il destino, o chi per lui, lo manda all’Eintracht Braunschweig, non più una squadra da primi posti, ma una che lotta per salvarsi. A fine stagione ci riuscirà, ma senza Eigendorf, che nel frattempo non riuscirà a salvare se stesso.
La notte del 5 marzo 1983, l’Alfetta dell’ex enfant prodige del calcio dell’Est si schianta contro un albero. Eigendorf morirà due giorni dopo: aveva appena 26 anni. Nel suo corpo venne ritrovata una quantità d’alcol tale da non avere molti dubbi sulla dinamica: ubriaco, avrebbe perso il controllo dell’auto in una curva pericolosa. Insomma, un incidente. O forse no.
Il 21 febbraio, nemmeno due settimane prima di morire, Eigendorf aveva accettato di rilasciare un’intervista a un canale nazionale. Alle sue spalle campeggiava il simbolo della Germania divisa, il muro di Berlino. Da lì aveva magnificato la Bundesliga, criticato il sistema calcistico della Ddr e - di riflesso - tutta l’impalcatura che teneva in piedi il regime. Era troppo. Di sicuro abbastanza per fargliela pagare una volta per tutte. Questa è almeno la tesi del giornalista Heribert Schwann, che nel suo documentario “Morte al traditore” ha raccolto documenti e testimonianze che proverebbero l’accanimento di Mielke nei confronti di Eigendorf, con tanto di minacce indirette, e un pagamento più che sospetto di mille marchi sul conto di un membro della Stasi il giorno della morte del calciatore. A tutto questo si aggiunge la mezza confessione di Felgner, l’ex amico-spia boxeur che avrebbe ricevuto un versamento di 2.300 marchi in quegli stessi giorni, e che durante un altro processo a suo carico disse di essere lui l’assassino designato di Eigendorf. Almeno così avrebbe voluto la Stasi, che gli fece addirittura firmare un contratto da parte sua mai onorato. O perlomeno così dice lui.
A favore della tesi dell’omicidio resta la dinamica dell’incidente. Stando ai dossier desecretati della Stasi, non era insolito, all’inizio degli anni Ottanta, far ingerire alle vittime disegnate - con la forza o con l’inganno - una sostanza chimica che allentava i riflessi e annebbiava la vista. Una volta messo il bersaglio alla guida, si aspettava il suo passaggio in una curva pericolosa e dall’altra parte si faceva arrivare un complice con gli abbaglianti accesi. A quel punto non restava che aspettare lo schianto. Così morivano, talvolta, i condannati a morte dalla Stasi.