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Len Bias, il rivale che Jordan non ebbe mai

Non fosse morto giovanissimo, avrebbe compiuto oggi 60 anni il miglior cestista a non aver mai giocato nella Nba, da tutti ritenuto forte come Michael

In sintesi:
  • A stroncare la giovane vita di Len Bias, giovane stella del basket universitario in procinto di passare fra i professionisti, fu una massiccia assunzione di cocaina
  • I critici del tempo erano convintissimi che Bias fosse l'unico cestista in grado di rivaleggiare davvero con Micheal Jordan, il più grande della propria generazione
18 novembre 2023
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Nella tarda primavera del 1986 non erano pochi a sostenere che l’egemonia tecnica di Michael Jordan sulla Nba – in atto soltanto da un paio di stagioni – fosse già destinata a terminare, o comunque ad essere contrastata da un avversario che a His Airness – suo coetaneo – non aveva proprio nulla da invidiare. Parlavano di Len Bias, che al contrario di MJ, passato professionista a 21 anni, era rimasto al college per tutti e quattro i canonici anni accademici. Ad assicurarsi i suoi servigi, al draft effettuato al Madison Square Garden di New York, erano stati nientemeno che i Boston Celtics, la franchigia più prestigiosa della lega, che in quegli anni dominava il gioco insieme ai Los Angeles Lakers e che, poche settimane prima, aveva vinto l’ennesimo anello. Erano i tempi di Larry Bird e Magic Johnson, che con la loro spettacolare rivalità erano riusciti, dal 1979, a ridare nuova linfa alla Nba, un campionato in declino, sull’orlo del fallimento e invece rilanciatosi alla grande proprio grazie a questi due fuoriclasse. E ora, con Len Bias che finalmente raggiungeva Jordan fra i Pro, tutti scommettevano che i due virgulti avrebbero continuato sulla scia dei due califfi che li avevano preceduti.

In campo, Bias a Jordan era molto simile: atleticità estrema, tecnica sopraffina e capacità di giocare in due o tre ruoli indifferentemente. Di Michael era però un po’ più alto – 203 cm contro 198 – abbastanza da consentirgli di essere un miglior rimbalzista e per rilasciare da altezze ancor più siderali il tiro in sospensione, arma che dunque risultava essere ancor più efficace di quella della stella dei Bulls. Leonard Kevin Bias era così forte che, quando i Celtics se lo accaparrarono, Larry Bird si offrì volentieri di partecipare al ‘camp’ estivo destinato ai nuovi arrivati per potergli fare da chioccia nei suoi primi giorni nel Massachusetts, nella migliore tradizione bostoniana, proprio come nel 1970 Hondo Havlicek aveva fatto con Dave Cowens e come Cowens in seguito aveva fatto con lo stesso Bird. Purtroppo però, come vedremo, Larry e Len non fecero in tempo a giocare insieme nemmeno una volta.

Bias era nato il 18 novembre 1963, e oggi avrebbe dunque compiuto 60 anni, se un destino crudele non se lo fosse portato via prima ancora che ne compisse 23. Aveva visto la luce a Landover, nel Maryland, neanche una decina di km dalla capitale statunitense Washington, a pochi metri dallo stadio dei Redskins: e il football fu tra l’altro a lungo il suo sport preferito, almeno fino a quando iniziò la high school, dove le sue qualità di cestista furono immediatamente notate. La palla ovale però ce l’aveva nel cuore, e infatti continuò a giocarci anche all’università, benché nel basket fosse ormai fra i migliori due o tre dell’intera nazione. Un’altra cosa che non abbandonò mai fu il Maryland, sua terra natia, dove decise di frequentare il college, malgrado la corte spietata e le lusinghe di Syracuse e Georgetown, atenei sportivamente parlando assai più prestigiosi. Ma il giovane Len era fatto così, amava stare nella comfort zone, vicino agli amici e alla parrocchia dove un prete – a causa del suo carattere chiuso e tranquillo – lo aveva ribattezzato Frosty, come fosse un ghiacciolino.

Come Michael Jordan, nemmeno Bias si portava appresso esperienze di strada e di violenze, come invece spesso capitava – e ancora succede – a molti ragazzi neri americani. E, anche qui come Jordan, Len ebbe qualche difficoltà a far decollare la sua carriera universitaria, almeno per quanto concerne il primo anno, nel quale a entrambi era stata riconosciuta soltanto un’eccezionale elevazione e la tendenza a eccedere nello show. Fu infatti soltanto dopo qualche tempo che Lefty Driesell, leggendario coach della Maryland University, si accorse delle praticamente infinite potenzialità del giocatore che gli era capitato per le mani, e seppe sfruttarle e valorizzarle al meglio.

Quando Jordan decise di passare professionista dopo le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, Bias divenne il dominatore incontrastato della lega universitaria, di cui per due anni fu votato miglior giocatore e che concluse, l’ultimo anno, con oltre 23 punti e 7 rimbalzi di media, statistiche che facevano sognare tutti i manager della Nba, ma soprattutto Red Auerbach, plenipotenziario per il mercato dei Celtics, il cui unico cruccio era il fatto che la primissima scelta al draft sarebbe toccata a Philadelphia, mentre lui doveva ‘accontentarsi’ della seconda chiamata: c’era dunque il rischio – forte – di farsi soffiare la stella più splendente. I Sixers però, forse presaghi di qualcosa, erano convinti che in Bias ci fosse qualcosa che non andava, e così scelsero il pivot Brad Daugherty (che cedettero immediatamente a Cleveland) lasciando campo libero al vecchio Red, che quasi non credeva ai propri occhi per il privilegio che gli era stato concesso. Bias, col numero 2, fu dunque messo sotto contratto dai fortissimi Celtics di Bird, Parish e McHale, che con l’innesto del funambolico Len si sarebbero garantiti ancora molti anni da sicuri protagonisti di primo livello. Len Bias, però, con la canotta biancoverde di Boston non fece in tempo a giocare nemmeno un minuto, perché purtroppo morì due giorni dopo il draft, il 19 giugno 1986.

Quella maledetta notte

Firmato l’accordo con la franchigia del New England, il ragazzo – prima di rientrare nel Maryland da New York – si recò accompagnato dal padre nella sede della Reebok per siglare, ancor prima di scendere in campo, un contratto milionario, e poi rimontò in macchina per quel paio d’ore che lo separavano da casa. Scaricate le infinite scatole di scarpe di cui era stato omaggiato – destinate ad amici e parenti – salutò i genitori e si diresse al campus universitario, dove i compagni di squadra e di corsi lo attendevano per festeggiare l’inizio di una carriera che si presentava come radiosa e ricchissima.

Di tutte le cose che avvennero quella sera e quella notte, soltanto poche si conoscono con certezza. Si sa, ad esempio, che Len cenò nella sua stanza al dormitorio e che, in seguito, si recò nella camera 1103, dove qualcuno gli aveva organizzato un party. Dopodiché, le varie versioni differiscono parecchio: pare però che verso la una di notte il campione abbandonò l’ateneo per andare a procurarsi birra, cognac e cocaina, e che vi fece ritorno verso le tre e mezza.

Nulla si sa invece – ma si può forse immaginare – di ciò che avvenne nel corso delle tre ore successive, fin quando cioè, verso le sei e mezza del mattino, qualcuno si accorse che Len era in preda alle convulsioni, che poco dopo collassò al suolo e che presto smise di respirare. Quando uno dei presenti si decise a chiamare i soccorsi, biascicando nella cornetta riuscì solo a chiedere che salvassero il suo amico: si trattava del celebre Len Bias e dunque non potevano lasciare che morisse. Nell’attesa dell’ambulanza, qualcuno riuscì a evitare che il ragazzo finisse soffocato dalla sua stessa lingua, ma non servì a nulla, così come del tutto inutile fu il pacemaker che i dottori provarono ad impiantargli. Leonard Kevin Bias, 22 anni e mezzo, venne dichiarato morto alle 8.55 del mattino: il referto medico riportava come causa del decesso una grave aritmia cardiaca dovuta all’eccessiva assunzione di cocaina, di cui c’erano vistose tracce perfino nello stomaco del paziente.

Molte persone vennero interrogate e, come detto, ognuno raccontò la cosa a modo suo, tanto che alla fine nessuno venne incriminato. Qualcuno sostenne che Len avesse tirato di coca già molte volte nel passato – era del resto la droga più in voga nel Paese a quell’epoca –, altri invece giurarono il contrario, ma ovviamente niente di tutto ciò riuscì a cambiare la realtà delle cose: un ragazzo di 22 anni, probabilmente l’unico in grado di contrastare davvero sua maestà Michael Jordan, era morto ancor prima che la sua avventura nella Nba potesse iniziare. La madre di Len ricevette lettere dal presidente Ronald Reagan e dal suo vice George Bush sr, oltre a corone di fiori da parte di Larry Bird e altri giocatori che avrebbero dovuto diventare compagni di squadra di suo figlio, ma che non lo furono mai. Ai funerali parteciparono 11mila persone, e alcune migliaia presenziarono, qualche anno più tardi, pure alle esequie di Jay, fratello minore di Len, bravo cestista anche lui: ad ucciderlo furono due farabutti con cui ebbe un diverbio nel parcheggio di un centro commerciale.

In seguito ai fatti della Maryland University, il governo degli Stati Uniti varò una legge – che prenderà il nome proprio da Bias – che sanciva la responsabilità dello spacciatore nel caso la vendita portasse alla morte dell’acquirente. Risultò pure che Bias, come molti atleti d’alto livello, di studiare non aveva alcuna voglia: ai migliori giocatori, semplicemente, le università regalavano i diplomi. Il sacrificio di Len servì pure a modificare quello scandaloso andazzo: da lì in poi, i controlli assunsero contorni seri, e anche gli atleti svogliati furono costretti a frequentare davvero i corsi e a dare gli esami.

A livello sportivo, il draft Nba del 1986 passò alla storia come un evento del tutto particolare, oltre che tragico. Len Bias, infatti, non fu l’unico atleta di quella covata ad avere problemi con la droga: ad avere grossi guai furono pure Chris Washburn (scelto col numero 3), William Bedford (chiamato come 6°) e Roy Tarplin (7°). A sfondare nella lega, fra i prescelti di quell’annata, furono paradossalmente giocatori scelti con numeri molto più alti. Fra questi c’erano ad esempio Arvidas Sabonis (24), che però dovette attendere ancora qualche anno prima di poter lasciare l’Unione Sovietica, Mark Price (25°), e ovviamente Dennis Rodman (27), destinato malgrado tutti i suoi eccessi a diventare un’icona planetaria. Ma più di tutti stupisce l’inspiegabile numero 60 con cui fu scelto Drazen Petrovic, il più forte europeo di tutti i tempi, pure lui assai sfortunato e scomparso a soli 28 anni in un incidente stradale.