Il 29enne che pratica la pallacanestro da soli 14 anni è il nuovo Mvp di Nba, grazie soprattutto alla completezza del suo gioco e alla grande tenacia
Le luci si abbassano. La musica, prima martellante, si placa all’improvviso. E tra la folla, improvvisamente, serpeggia un fermento contagioso. È il momento che tutti aspettavano. Prevedibile. Eppure, irresistibile. Un video di due minuti, proiettato sul tabellone dell’arena, ripercorre le tappe della carriera di Joel Embiid. Poi, appena finisce, i riflettori sono tutti su di lui. Una montagna di muscoli alta 210 centimetri, che fino a 15 anni di età non giocava nemmeno a basket. A 29 è stato eletto miglior giocatore della stagione Nba – in sostanza, del mondo. Un riconoscimento leggendario, ambitissimo. Vinto in passato da mostri sacri come Michael Jordan, Kobe Bryant, LeBron James. E celebrato anche quest’anno con la tradizionale premiazione davanti ai propri tifosi.
La cerimonia, seguita dagli sguardi incollati degli oltre 20mila tifosi assiepati sugli spalti del Wells Fargo Center, ha regalato un momento di grande commozione. In linea con il carattere di un personaggio istrionico, chiacchierone, amante della ribalta. Ma che in ogni gesto trasmette una genuinità travolgente. Merce rara, in un mondo dove il confine tra recitazione e autenticità non è sempre facile da tracciare.
Ricevuto il premio, Embiid ha ringraziato la famiglia. Poi ha indicato il figlio, nascosto da qualche parte sugli spalti. Nemmeno il tempo di dirlo, e il pargolo schizza in campo, scorrazzando sul parquet dell’arena prima di saltare in braccio al padre. Dalla folla arrivano applausi, risa, cori celebratori. Lui lo prende in braccio, guarda il pubblico. Microfono in mano ringrazia tutti, tradendo una lacrima. “M-V-P, M-V-P”, scandisce la folla. E proprio in quel momento, anche solo per un attimo, la cortina invisibile che divide pubblico e attori sembra dissolversi. Il leader parla, il popolo ascolta. In un palasport buio, un giocatore e chi è venuto per vederlo giocare comunicano senza barriere. Ritrovandosi a condividere un momento di intimità disarmante. Solo le luci che si riaccendono, quasi a interrompere il sogno, riportano tutti bruscamente alla realtà. C’è tempo per un ultimo saluto, prima di prepararsi a giocare. I Sixers perderanno la partita, con pieno merito. Ma in una serata come questa, e per un momento di tale intensità, diventa quasi un dettaglio.
In un mondo in cui le storie improbabili abbondano, e vengono raccontate con enfasi, la traiettoria di Embiid rimane più unica che rara. Cresciuto in Camerun, a Yaoundé, iniziò seriamente con la pallacanestro a 15 anni. Tardissimo, per un atleta professionista. Merito in larga parte del suo mentore Luc Mbah a Moute. Che prima gli insegnò i fondamentali. E poi, grazie alla sua sterminata rete di contatti, gli permise di trasferirsi al di là dell’Oceano. Prima in Florida, al liceo. E poi, per un anno, alla leggendaria Università del Kansas. Dove alla fine dell’Ottocento il professore di educazione fisica James Naismith inventò il gioco della pallacanestro; e oggi, a oltre un secolo di distanza, gli studenti fanno ancora tremare le tribune per il rumore che fanno durante le partite.
Dopo la stagione al college, arriva l’approdo in Nba, con i Philadelphia 76ers. Squadra di cui è diventato bandiera, emergendo come uno dei massimi interpreti contemporanei del gioco. Una crescita che ha vissuto tanti momenti difficili, soprattutto all’inizio. Quando un problema al piede lo ha di fatto tenuto fermo due anni, facendo credere a molti che la sua avventura, nonostante gli abbacinanti lampi di talento, fosse finita ancora prima di cominciare. Si temeva l’ennesima carriera stroncata dagli infortuni: un altro caso da aggiungere a un girone dell’inferno di cui la storia della Nba è tristemente piena. Ma oltre alla lingua lunga, Embiid ha anche una tenacia impareggiabile. Non ha mai perso la spinta, né la voglia di divertirsi. E, soprattutto, ha imparato a fare i conti con la propria fragilità fisica, trovando il modo di sprigionare intensità, e al tempo stesso preservare il corpo.
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Dopo l’esperienza in Kansas, il draft nel 2014, assieme a Capela
Dominanza ed eleganza; potenza e agilità; schiacciate detonanti e morbidi tiri da tre. Embiid incarna alla perfezione la fluidità del basket contemporaneo: una disciplina in cui, a fronte di abilità tecniche sempre più raffinate, le divisioni tra i ruoli diventano superate. E con esse, triti stereotipi come quello del centro come un corpaccione da ancorare nei pressi del canestro. Più in generale, però, Embiid è proprio quello che gli Americani chiamano “generational talent”. Uno di quei fenomeni che nasce una volta ogni tanto, e da solo è in grado di cambiare i destini di una squadra. Non c’è nulla che non sappia fare, in attacco e in difesa. Aiutato dai muscoli e dai centimetri, è una minaccia costante vicino a canestro. Ma grazie a un tiro micidiale e a due mani morbidissime, sa segnare con costanza anche da lontano. Per non parlare delle abilità di palleggio, che gli consentono di penetrare, e a volte pure di condurre il contropiede. Come fanno normalmente le guardie, che però hanno 30 centimetri e svariati chili in meno da portarsi dietro. Con un arsenale del genere, marcarlo diventa impossibile. Solo raddoppiandolo, se non triplicandolo, le difese possono sperare di limitarne l’efficacia, finendo però inevitabilmente per sbilanciarsi.
Nella metà campo difensiva, lo spettacolo che offre è di eguale valore. Le sue stoppate gasano la folla, ma soprattutto incutono timore agli attaccanti avversari, spingendoli a girare alla larga. E così, vincere il premio era solo questione di tempo. Ci era già andato vicino negli anni precedenti, finendo però con l’essere beffato dal serbo Nikola Jokic. Un altro di quelli che non si era mai visto, e chissà per quanto non si vedrà. Quest’anno, però, è riuscito ad aver la meglio. Merito di un’annata che lo ha lasciato relativamente in pace sul piano degli infortuni. Ha chiuso con 33 punti a partita, 10 rimbalzi, quasi 4 assist. E soprattutto 12 tiri liberi tentati per partita, a testimonianza di quanto sia difficile da arginare per le difese. Numeri da videogioco, più che da realtà.
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Una stoppata, una delle sue specialità in difesa
Portato a casa il trofeo di Mvp, resta però la sfida più difficile. Trascinare Philadelphia alla vittoria del campionato, che manca dal 1983. Per arrivare a competere, i Sixers sono stati protagonisti di uno degli esperimenti di programmazione sportiva più radicali nella storia del gioco. Uno smantellamento integrale che, nell’estate 2012, ha trasformato la squadra in un’accozzaglia di reietti, con il fine, più o meno esplicito, di perdere il più partite possibile. Nel sistema americano, accumulare sconfitte è spesso un passaggio obbligato per diventare grandi: meno si vince, più alte sono le possibilità di accaparrarsi i talenti migliori, e dunque di vincere in futuro. Lo chiamano tanking, l’arte di auto-affondarsi. Guidata dal manager Sam Hinkie, personaggio tanto geniale quanto enigmatico, i Sixers hanno portato questa filosofia a un estremo mai visto prima. Inanellando stagioni di atroci, grottesche sconfitte, come ricetta per raggiungere l’eccellenza. “Trust the process”, abbiate pazienza, diceva Hinkie. E col tempo, quell’espressione si è trasformata in un tormentone. Nel bene e nel male, parte integrante dell’immaginario collettivo di Philadelphia. Il simbolo di un’attesa, sospesa tra illusione e speranza, che ancora adesso continua a prolungarsi.
Nessuno incarna quello spirito di rivincita più di Embiid, che in fin dei conti è arrivato in questa squadra proprio grazie a quelle sconfitte. “The Process is here” commentò lui appena arrivato. Nel giro di poco, le sue prodezze iniziarono a portare le prime vittorie, e dunque a tirare fuori i Sixers dalla debolezza tragicomica in cui erano impantanati. Anni dopo, però, l’assalto al titolo sembra ancora un sogno, più che un obiettivo. Per tentarlo, ci sarà ancora tempo. Nel frattempo, c’è un nuovo trofeo in salotto. E, almeno per un fine settimana, può bastare così.