Settant’anni fa si spegneva in povertà e dopo una vita tutt’altro che banale uno dei più grandi personaggi della storia delle Olimpiadi moderne
L’ex campione morì all’ora di cena nella roulotte sgarrupata in cui viveva con la terza moglie, che era riuscita in un primo momento a rianimarlo, ma che non poté far nulla quando – qualche minuto più tardi – un altro attacco cardiaco se lo portò via definitivamente. Del resto, era il terzo infarto subito nel giro di pochi mesi, e che sarebbe finita così c’era quasi da aspettarselo. Aveva all’incirca 66 anni.
Nessuno infatti – data l’assenza di documenti – ha mai conosciuto con certezza la data di nascita di Jim Thorpe, indicata generalmente come 1887 o 1888. E molti dubbi sussistono pure sul luogo in cui l’atleta venne al mondo: qualcuno dice Prague, nel Territorio Indiano poi divenuto l’odierna Oklahoma, mentre altri indicano una capanna nei pressi di Bellemont, qualche decina di miglia ancora più a ovest. Idem per l’anagrafe, benché qui le differenze siano abbastanza trascurabili: passato alla storia come James Francis Thorpe, sul certificato di battesimo figura invece la versione latina Jacobus Franciscus Thorpe. C’è invece concordia per quanto attiene al suo nome meskwaki, che era Wa-Tho-Huk, cioè Sentiero Luminoso.
Nel Dna di Thorpe, infatti, notevole era la componente pellerossa, come si diceva un tempo. Entrambi i suoi genitori avevano madri appartenenti a tribù native americane: il padre era però figlio di un irlandese, mentre la madre era figlia di un francese. Appartenevano alla Sac and Fox Nation, tribù originarie della zona dei Grandi Laghi che erano state deportate e ricollocate molto più a sud – appunto in Oklahoma – pochi anni prima della nascita di Jim.
Il ragazzo era dunque un autentico mezzosangue, sempre usando il lessico dell’epoca: un meticciato che lo privò delle opportunità di formazione di cui godevano i suoi coetanei bianchi, e che lo relegò in una scuola indiana che agli alunni offriva ben poco. Non mancavano però nella griglia oraria, per fortuna, le lezioni di sport, ambito in cui Jim si mise presto in evidenza e che contribuì – durante la sua infanzia tribolata – a contenere entro limiti accettabili il suo carattere assai esuberante.
La morte del fratello gemello quando aveva solo 8 anni – e quella della madre avvenuta poco dopo – avevano infatti gettato il ragazzo nella disperazione e lo avevano indotto ad abbandonare padre, casa e scuola a più riprese, preferendo alla grammatica i segreti degli allevatori di cavalli presso cui si rifugiava ogni volta che tagliava la corda.
Rappacificatosi col genitore poco prima che anche questi morisse per una ferita di caccia curata male, riuscì infine a iscriversi ormai diciottenne a una scuola superiore della lontana Pennsylvania, che lo accolse più per le sue doti agonistiche che per autentico spirito egualitario.
Da campione a indesiderato
Jim, il miglior sportivo della sua generazione, eccelleva nel baseball, nel lacrosse, nel basket inventato da poco, nel ballo, in tutte le specialità dell’atletica leggera e soprattutto nel football, sport in cui sapeva ricoprire al meglio più ruoli, oltre a quello prediletto di running back. E furono proprio la sua bravura e la sua velocità nella palla ovale – per due anni di seguito fu votato fra i più forti degli Stati Uniti a livello universitario – ad aprirgli le porte per le Olimpiadi di Stoccolma nel 1912, dove si iscrisse alle gare di salto in lungo, salto in alto, pentathlon e decathlon.
Washington, a quell’epoca, gli indiani nemmeno li considerava cittadini statunitensi (fu così fino al 1924), ma evidentemente si potevano fare delle eccezioni, se c’era da ricavarne qualcosa… Quarto nell’alto e settimo nel lungo, non ebbe invece rivali nel pentathlon e nel decathlon, che gli fruttarono due strepitose medaglie d’oro di cui si parlerà molto nel corso dei decenni a venire, e non soltanto perché quell’exploit non è mai più riuscito a nessuno.
Rimpatriato da eroe, Thorpe cadde però in disgrazia dopo pochi mesi, quando alcuni giornali americani pubblicarono la notizia che il campione, prima dei Giochi, aveva disputato alcune partite di baseball nella Carolina del Nord ricevendo come compenso un piccolo rimborso spese. Una cifra ridicola, ma abbastanza da indurre i capoccioni del Comitato Olimpico a revocargli i due ori conquistati in Svezia: ai tempi, infatti, nelle gare a 5 cerchi bisognava essere dilettanti assoluti.
Il sospetto è che a fare la spia sia stato Avery Brundage, compagno di Jim nella squadra statunitense: si trattava infatti di un fervente razzista, e probabilmente non sopportava il fatto di essere stato surclassato da un pellerossa. Brundage, per la cronaca, una ventina d’anni più tardi si dichiarò accanito sostenitore nazista e quando divenne presidente del Cio fu sempre contrario a sanzionare il Sudafrica per l’Apartheid, e a Monaco nel 1972 non volle che i Giochi venissero sospesi dopo che i terroristi palestinesi trucidarono ben 11 atleti israeliani.
Thorpe provò a chiedere perdono, professando la sua innocenza: ero solo un povero studente indiano – scrisse in una lettera – che non sapeva di commettere qualcosa di vietato. Ma tutto fu inutile, e le medaglie gli furono tolte benché i secondi classificati non volessero accettarle, riconoscendo che Jim – nettamente più forte – aveva vinto in modo pulito.
Oltretutto, la revoca non fu conforme al regolamento stesso delle Olimpiadi, secondo il quale ogni reclamo doveva essere inoltrato entro 30 giorni dalla fine dei Giochi: la procedura contro Thorpe fu avviata con oltre 6 mesi di ritardo, ma nemmeno ciò bastò a fermare la campagna contro l’atleta nativo americano, e il suo nome venne cancellato dall’albo d’oro.
La vita, comunque, continuava e i dispiaceri per il torto subito furono almeno in parte dimenticati: Thorpe giocò infatti a football e baseball per un’altra dozzina d’anni nelle squadre più prestigiose del Paese, stabilendo numerosi record, aggiudicandosi svariati riconoscimenti, aiutando a fondare e a presiedere la futura Nfl e, giustamente, guadagnando pure un sacco di soldi.
Hollywood e dintorni
Le circostanze, però, non vollero che la sua fortuna continuasse troppo a lungo: l’amore per la bottiglia e due matrimoni falliti – forieri di ben otto figli – contribuirono infatti a polverizzare in breve tempo la fortuna che Jim era riuscito a mettere da parte. Provò ad allenare per qualche anno, ma senza troppo successo per colpa della sregolatezza di cui era ormai ostaggio. La mazzata definitiva, ad ogni modo, arrivò con la crisi del 1929, che mandò in fumo anche gli ultimi dollari che gli erano rimasti.
Ormai spiantato, l’ex eroe di Stoccolma sopravvisse un altro paio di decenni racimolando l’indispensabile facendo il muratore, il facchino, il marinaio, il buttafuori e la comparsa cinematografica. Per due soldi, apparve come figurante pellerossa in svariati western, senza ovviamente che il suo nome venisse mai citato. E non ricavò nulla nemmeno quando a Hollywood decisero di fare un film sulla sua vita: lui neanche si ricordava, ma anni prima aveva venduto i diritti per pochi dollari a una casa di produzione, rinunciando a ogni percentuale sugli incassi nel caso l’opera fosse stata un giorno davvero realizzata.
Riabilitato
James Francis Thorpe, come detto, morì povero in un campo per roulotte della California meridionale settant’anni fa, senza sapere che – tre decenni più tardi – i suoi numerosi figli sarebbero infine riusciti a farlo riabilitare e, dopo svariate postulazioni, a convincere Juan Antonio Samaranch (numero 1 del Cio) a restituirgli le medaglie che gli erano state confiscate.
Ma, soprattutto, mai avrebbe potuto nemmeno immaginare che la sua terza moglie, per tirare avanti, avrebbe stipulato un accordo che ha davvero dell’incredibile. Mauch Chunk, per nulla ridente cittadina delle Pocono Mountains prossima alla bancarotta, era alla ricerca disperata di un’idea per attirare turisti e residenti che potessero risollevarne le sorti.
E così Patricia, la vedova di Jim, propose al sindaco di comprare i resti mortali del campione, piazzarli in un mausoleo e far pagare il biglietto d’ingresso a ogni buon americano che fosse passato di lì in vacanza o per lavoro. La cosa funzionò così bene che il primo cittadino, entusiasta, addirittura decise di cambiare nome al villaggio, il quale dalla metà degli anni 50, ufficialmente, si chiama appunto Jim Thorpe, Pennsylvania.