Dal massacro alle Olimpiadi ai femminicidi di Agnes Tirop e Corinne Rey-Bellet: quando in ballo non c’è soltanto una banale vittoria
Edith Muthoni, nella sua carriera, le vette di popolarità toccate da Agnes Tirop non le aveva ma raggiunte. La 27enne era conosciuta come maratoneta di livello nazionale, ma esattamente come la più nota connazionale è rimasta vittima, proprio nello stesso giorno (13 ottobre), della violenza dell’uomo al quale era sentimentalmente legata. La sua morte non ha suscitato grandi emozioni, se non nel natio Kenya, al contrario di quanto successo con la fondista Tirop, il cui assassino (il principale sospettato, il marito) è stato arrestato nel breve volgere di un paio di giorni. Tirop, d’altra parte, si era fatta conoscere sul palcoscenico più importante del mondo, quello dei Giochi olimpici, quando a Tokyo aveva chiuso al quarto posto i 5’000 metri. Ma la 25enne era un’atleta che con il podio flirtava da anni, da quando nel 2015 a Guiyang, in Cina, aveva conquistato il titolo mondiale di cross. Sul tartan avevano fatto seguito i bronzi nei 10’000 metri ai Mondiali di Londra 2017 e Doha 2019, mentre su strada lo scorso 12 settembre aveva firmato il nuovo record del mondo dei 10’000 metri con il tempo di 30’01”.
Lo sport piange l’ennesima morte violenta di un (un’) atleta, in un lutto che, praticamente, si perpetua senza soluzione di continuità sin da quando il genere umano ha fatto dell’attività fisica una competizione, strappandola a quella dimensione ludica nella quale era nata. A ben guardare, però, se sono molti gli sportivi uccisi, sono altrettanti (se non di più) quelli passati dalla gloria di uno stadio all’anonimato di una cella. Ma per ora ci occupiamo della prima categoria, con una carrellata, lungi dall’essere esaustiva, di alcuni casi celebri.
Senza entrare nel merito delle due guerre mondiali che si sono portate via tanti sportivi (145 olimpionici nella Grande Guerra, tra cui Octave Lapize, quello del “Vous êtes des assassins” gridato in faccia agli organizzatori del Tour de France 1910 in cima al Tourmalet, o Lutz Long nella Seconda, colui che con i suoi consigli aiutò Jesse Owens a vincere l’oro nel salto in lungo alle Olimpiadi del 1936), dal 1945 in poi la morte violenta ha colpito in parecchie occasioni.
E ha colpito, purtroppo, anche in Svizzera, con un caso oggi poco ricordato, ma che 15 anni fa aveva destato grande scalpore. Era il 30 aprile 2006 quando Corinne Rey-Bellet (34 anni), ex nazionale di sci con cinque vittorie in Coppa del mondo e una medaglia d’argento ai Mondiali di St. Moritz del 2003 (l’anno del suo ritiro), venne uccisa a colpi di arma da fuoco dall’ex marito Gerold Stadler, dal quale era separata da pochi giorni. Dopo aver riportato il figlio Kevin (due anni) dalla madre, in quel momento residente a Les Crosets (Vallese) dai genitori, nel corso di una discussione relativa alla separazione, il sangallese Stalder aveva freddato, oltre a Corinne Rey-Bellet, anche il cognato Alain (32 anni), mentre la madre Verena era rimasta gravemente ferita (il padre Adrien aveva appena lasciato l’abitazione). Stadler fuggì in auto e tre giorni più tardi il suo corpo fu rinvenuto nei pressi di Ollon. Si era suicidato.
Il caso più famoso, quello che tenne con il fiato sospeso il mondo per un giorno intero, riguarda il massacro alle Olimpiadi di Monaco, quando il 5 settembre 1972, alle 4 del mattino, un commando palestinese di Settembre Nero fece irruzione nella palazzina del villaggio olimpico occupata dalla rappresentativa israeliana e, dopo aver immediatamente freddato due atleti che avevano opposto resistenza, ne prese in ostaggio altri nove. Dopo lunghe trattative con le autorità tedesche, in un villaggio olimpico assediato da curiosi e giornalisti (fecero il giro del mondo le immagini del terrorista affacciato al balcone) e con le competizioni olimpiche andate avanti per ore prima di uno stop, il commando e gli ostaggi furono trasferiti alla base aerea di Fürstenfeldbruck. Era stato detto loro che da lì sarebbero partiti alla volta del Cairo, invece le forze speciali tedesche avevano predisposto un blitz per liberare gli atleti israeliani. Alle 23 i poliziotti aprirono il fuoco e la sparatoria proseguì per circa un’ora. I terroristi decisero di uccidere gli ostaggi, mitragliando e gettando una bomba a mano all’interno dell’elicottero nel quale si trovavano gli atleti e che era servito per raggiungere la base aerea. Al termine del conflitto a fuoco, sul campo rimasero nove israeliani, cinque fedayyin e un poliziotto tedesco. E pure la credibilità di una polizia tedesca fattasi trovare colpevolmente impreparata.
Va ancora ricordato come a Londra 2012, in occasione del quarantennale del massacro, il Cio non accolse la richiesta di una commemorazione ufficiale inoltrata da Ilana Romano, vedova di uno degli atleti assassinati. Motivazione: i Giochi non sono la sede per manifestazioni politiche. Pochi mesi fa, durante la cerimonia d’apertura di Tokyo 2020, su espressa volontà del presidente Thomas Bach, è finalmente stato osservato un minuto di silenzio in memoria delle undici vittime.
È nella Roma degli Anni di piombo che nel 1977 trovò la morte Luciano Re Cecconi, giocatore della Lazio e nel giro della Nazionale azzurra. E, come spesso accade in Italia, la tragica vicenda a 45 anni di distanza rimane avvolta in un alone di mistero. Si sa per certo che la sera del 18 gennaio Re Cecconi, il compagno di squadra Pietro Ghedin e l’amico comune Giorgio Fraticcioli entrarono nella gioielleria di Bruno Tabocchini. Fraticcioli, profumiere, avrebbe dovuto consegnare un profumo al gioielliere, suo conoscente. Pochi secondi dopo, a terra era rimasto il corpo di Re Cecconi, centrato al petto da un colpo di arma da fuoco. Secondo la prima versione, il giocatore appena entrato avrebbe intimato “Fermi tutti, questa è una rapina”, scatenando la reazione del gioielliere (già più volte rapinato) e una volta a terra, prima di spirare avrebbe avuto il tempo di dire “Era uno scherzo”. Tabocchini venne arrestato e sottoposto a processo, dal quale uscì assolto per legittima difesa.
Come andarono davvero le cose, ancora non si sa. Secondo i testimoni, Re Cecconi, una volta entrato nella gioielleria non proferì parola e, a detta degli amici, da uomo responsabile qual era, non avrebbe mai pensato di simulare una rapina, tanto meno in un periodo storico travagliato e violento come la metà degli anni Settanta. A quasi cinquant’anni da quella sera, la tesi più accreditata è che il colpo che uccise Re Cecconi partì per errore. Insomma, una tragica fatalità.
Non ebbero nulla a che vedere con la cattiva sorte, per contro, i colpi di arma da fuoco che il 12 luglio 1994 misero fine alla vita di Andres Escobar, difensore centrale e capitano di quella che è stata la Colombia più forte di ogni tempo. Considerata tra le grandi favorite ai Mondiali di Usa 94, nei mesi precedenti aveva subito gli stravolgimenti politico-sociali del Paese, con la morte di Pablo Escobar, capo del Cartello di Medellin e grande finanziatore del calcio “cafetero”, l’emergere del Cartello di Cali e la condanna al carcere per il portiere René Higuita, reo di aver reso visita in prigione al boss della droga. “El Caballero del Futbol”, come veniva soprannominato il 27enne dell’Atletico Medellin, fu ucciso a colpi di mitra all’esterno della discoteca Padova, dopo che dall’auto degli assassini gli avevano gridato “Grazie per l’autorete”. Poche settimane prima, durante i Mondiali – vissuti dalla Nazionale colombiana con crescente apprensione per le minacce dei narcotrafficanti (preso di mira in quanto ritenuto responsabile della sconfitta con la Romania, Gabriel Gomez era stato lasciato in panchina contro gli Usa, a titolo precauzionale) – uno sfortunato intervento di Escobar era costato l’autogol nella seconda sfida, quella con gli Stati Uniti e, di conseguenza, la prematura eliminazione già nella fase a gironi (a nulla era servito il successo 2-0 contro la Svizzera). Su quella partita, il narcotraffico aveva puntato e perso somme ingenti nel circuito delle scommesse clandestine e questo portò Juan Santiago Gallon Henao, originariamente amico di Pablo Escobar, ma poi diventato finanziatore del gruppo paramilitare Los Pepes, alleato del Cartello di Cali, a organizzare l’esecuzione di Andrés, ritenuto responsabile della débâcle dei Cafeteros. L’implicazione di Gallon Henao verrà certificata soltanto nel 2018, a 24 anni dall’omicidio.
Molto meno noti sono i nomi di Yulia Balykina, Jakkirit Panichpatikum e Abdelrahman El-Trabily. Fanno parte della lista degli sportivi vittime di morte violenta, ma pure di quella che ormai viene comunemente chiamata “la maledizione di Londra”. Infatti, 17 atleti presenti alle Olimpiadi 2012 nella capitale inglese, hanno già perso la vita, chi per malattia, chi per incidenti vari, chi perché vittime di omicidi. L’atleta bielorussa, il tiratore thailandese e il lottatore egiziano fanno parte dell’ultima categoria. La velocista Yulia Balykina venne uccisa nel 2015 dal fidanzato (il corpo fu rinvenuto in un bosco, avvolto nel cellophane sotto uno strato di muschio); Jakkirit Panichpatikum fu vittima nel 2013 di un sicario assoldato dalla suocera per vendicare i maltrattamenti subiti dalla figlia; sempre nel 2013, Abdelrahman El-Trabily rimase vittima al Cairo di una pallottola vagante nel corso di una manifestazione a favore del deposto presidente Mohamed Morsi.