TICINO SCIENZA

Il racconto della Supsi, tra scuola e ricerca ‘pratica’

Parla Emanuele Carpanzano, direttore scientifico della Scuola Universitaria Professionale. 400 i progetti di ricerca avviati principalmente con aziende

Il nuovo campus della Supsi a Mendrisio aperto nel 2021
(MARIAN DUVEN)
30 giugno 2023
|

Dall’architettura ai robot, dall’intelligenza artificiale ai pannelli solari, passando attraverso la scuola infermieri e addirittura il Conservatorio... Il mondo Supsi (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera italiana) è estremamente variegato – con quattro campus, tre scuole affiliate, quattro dipartimenti, migliaia di studenti. Diventa difficile, dall’esterno, trovare il “filo rosso” che lega, soprattutto, le attività di ricerca (in cui sono impiegate ben 600 persone): un patrimonio di esperienze “governato” da Emanuele Carpanzano, direttore della ricerca, dello sviluppo e del trasferimento della conoscenza (questa la sua qualifica). Nato in Germania da genitori italiani, laureato in ingegneria elettronica al Politecnico di Milano con esperienze anche in Svezia e Olanda, 53 anni, Carpanzano unisce un approccio molto pratico (da ingegnere, appunto!) alla capacità di immaginare scenari, qualità non frequente... Coordina dal maggio 2022 la ricerca alla Supsi, dove aveva diretto per molti anni il Dipartimento tecnologie innovative. Dopo i primi mesi di rodaggio, adesso ha una visione chiara e “globale” del presente e del futuro, e ha accettato di raccontarcela.


MARIAN DUVEN
Emanuele Carpanzano, direttore scientifico

Allora, qual è il filo rosso che unisce la complicata ricerca Supsi?

È semplice, in realtà, trovare il “collante” che guida il nostro lavoro – risponde Carpanzano –, pur nella grande varietà di temi. Ed è questo: alla Supsi ci occupiamo di ricerca applicata, cioè di quel tipo di tecniche e di studi che permette di affrontare e risolvere problemi reali (i problemi della città, delle aziende, delle istituzioni...). Questo, d’altronde, è uno dei compiti che la legge assegna alle otto Sup (Scuole Universitarie Professionali) svizzere. Gli altri mandati delle Sup sono la formazione di base (bachelor e master), la formazione continua (per incrementare le conoscenze e le specializzazioni di chi lavora già), e i servizi al territorio. Alla Supsi abbiamo circa 6’000 studenti nella formazione di base, 3’600 nella formazione continua e 400 progetti di ricerca.

I problemi reali, per la loro natura, sono legati a situazioni contingenti. Come si fa a dare una linea coerente a questo “disordine”?

I nostri progetti hanno sempre un committente. Sono le aziende e le organizzazioni ticinesi, cioè (in alcuni casi, anche di altri cantoni), che prendono contatto con noi esponendoci le loro esigenze: per esempio, quando devono sviluppare una specifica innovazione dei loro prodotti, o servizi. Spesso hanno un prototipo, che però va “testato”, migliorato, reso realmente utilizzabile su larga scala. Qui alla Supsi abbiamo, in molti settori, le competenze e le attrezzature necessarie per aiutare e accompagnare queste aziende.

Quindi lavorate, per certi aspetti, come consulenti di alto livello, e vi fate pagare (giustamente) per questo?

I modelli di collaborazione e di finanziamento sono di vario tipo, naturalmente. Un sistema classico, comunque, è quello per cui l’azienda sostiene in modo diretto circa il 50% delle spese e poi chiede un contributo a Innosuisse (l’agenzia federale che si occupa di innovazione) per finanziare il lavoro dei ricercatori della Supsi. Normalmente, Innosuisse non copre in modo totale i costi del nostro lavoro, che per un 5% circa vanno in ogni caso attribuiti all’azienda. La Supsi non dispone di fondi propri per sostenere i progetti.

Che disponibilità ha Innosuisse, a livello nazionale?

Non altissima, in verità: 230 milioni di franchi l’anno, che vengono destinati a circa 350 progetti innovativi. I fondi distribuiti realmente nel 2022 sono stati pari a 168 milioni, di cui 86 sono andati alle otto Sup. Alle start-up sono invece stati assegnati 9,5 milioni di un fondo ad hoc.

Certo, non si tratta di cifre elevate, se pensiamo che il Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica (Fns) ha un budget di circa 880 milioni (dati 2021) e – ma il paragone è improprio, me ne rendo conto – una multinazionale come Novartis investe ogni anno 9 miliardi (!) in progetti di ricerca...

È vero, ma il Fondo Nazionale si occupa di ricerca di base, cioè di quel tipo di ricerca (importantissima, peraltro) che crea nuove conoscenze, formulando ipotesi su fenomeni biologici, fisici, chimici, e così via. La ricerca applicata, invece, segue regole diverse e presenta difficoltà molto peculiari. Gli esperti di innovazione hanno coniato il termine “valle della morte”, per definire il passaggio strettissimo in cui spesso si vengono a trovare i progetti di nuove apparecchiature, strumenti, macchine (insomma, i progetti di ricerca applicata): studiati nei laboratori, perfezionati a livello di singoli prototipi, devono poi fare il salto per entrare realmente nella catena industriale ed essere prodotti e venduti. Qui, come dicevo, intervengono spesso le Sup, anche se le fonti di finanziamento sono limitate: oltre a Innosuisse, ci aiuta il Fondo Nazionale e poi anche il programma Bridge, attivo dal 2017, e altri finanziatori presenti sul nostro territorio, fra cui il Cantone.

Succede così anche negli altri Paesi?

Sì, ma con alcune specificità che variano da Stato a Stato, come in Israele, dove c’è una grandissima attenzione verso la ricerca applicata e le start-up, o in Germania, dove sono attive le Fachhochschulen (le scuole tecniche che hanno ispirato anche le nostre Sup) e dove funziona molto bene il Fraunhofer, ovvero il più grande istituto di ricerca applicata al mondo. Al Fraunhofer lavorano 23’000 persone, suddivise in 58 istituti, con un bilancio annuo di circa 2 miliardi di euro e filiali anche negli Stati Uniti e in Cina. L’istituto è in forte collegamento con il mondo industriale, con i Länder e con le università: un interessante modello a cui ispirarsi.

Attingete (o attingevate) anche ai fondi dell’Unione europea?

Per noi sono una risorsa molto importante. Confidiamo, a questo proposito, che la Svizzera raggiunga presto nuovi accordi con l’Ue, per poter partecipare nuovamente quale Stato membro (e non solo quale Stato terzo, come avviene oggi, con alcune conseguenti limitazioni).

Lei prima diceva che sono quasi sempre le aziende a prendere contatto con voi, per sviluppare i loro progetti. Ma non esistono anche iniziative di ricerca che vengono avviate direttamente dalla Supsi?

Certo, alcuni progetti possono partire anche per nostra iniziativa diretta, ma rappresentano solo una minoranza: circa il 10% del totale. Sono quelli definiti, in termine tecnico, “technology push”: progetti, cioè, che nascono da noi e che cerchiamo, poi, di sviluppare con uno o più partner del territorio. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi sono le aziende a venire dalla Supsi, nell’ambito di quello che viene chiamato “market pull”. Tutti i giorni riceviamo richieste di collaborazione, in ambiti anche molto diversi fra loro (elettronica di precisione, sistemi energetici, materiali per l’edilizia, economia, sanità, e altri ancora). In questi casi, lavoriamo come fornitori di competenze e tecnologie.

Siete collegati con le altre Sup?

Sì, ma forse meno di quanto sarebbe possibile e auspicabile. L’ideale sarebbe nel tempo connettersi e specializzarsi, così che ogni Sup possa creare settori in cui eccelle in modo assoluto, da offrire anche fuori dai confini cantonali alle aziende che ne hanno bisogno, agendo in una rete sempre più integrata. Stiamo lavorando in questa direzione, tramite molteplici iniziative.

L’obiettivo ulteriore sarà quello di inserire in futuro, all’interno di questa rete, anche altri protagonisti della ricerca: dunque altre organizzazioni e aziende particolarmente innovative, anche in ambiti trans-disciplinari, che leghino insieme settori diversi (tecnologia, design, economia, salute, arte). Cercheremo di capire quale potrà essere il “mix” migliore nel tempo.

Una rubrica a cura di Ticino Scienza per