Sempre più esposte, consapevolmente o inconsapevolmente, le nostre preferenze sono anche nelle mani di chi ne vuole trarre vantaggio
Siamo tutti, chi più, chi meno, interconnessi. Per cui riceviamo e cediamo informazioni continuamente – quando ci vengono forniti beni e servizi, quando cerchiamo nella rete... – con buona pace della protezione della nostra sfera privata o, con termine inglese ormai d’uso comune, della nostra privacy.
Certo quando a fine XIX secolo l’avvocato Samuel Warren, stufo di leggere sul quotidiano locale l’attività mondana della moglie e le relazioni sentimentali della figlia, scrisse un saggio intitolato “Diritto della riservatezza” ponendo così le basi per il riconoscimento giuridico di questo aspetto della nostra vita e per la sua conseguente protezione, non poteva immaginare lo sviluppo che la questione avrebbe avuto grazie alla diffusione delle tecnologie della comunicazione di massa e alla nascita delle moderne banche dati. Un’immensa quantità di “notizie” che, raccolta su scala sempre più larga e fatta circolare intensamente, ci ha trasformato da persone fisiche a entità anche digitali (noi siamo non solo corpi, ma anche i nostri dati, parrebbe). Un’ulteriore identità che, come tale, deve essere protetta.
L’immersione in uno spazio, in una società in cui le persone si trovano al centro di un flusso continuo di informazioni (e rifiutarsi di fornirle può implicare l’esclusione da numerosi processi sociali, dall’accesso alle conoscenze alla fornitura di beni e servizi), ha mutato dunque il rapporto che i cittadini intrattengono con la loro sfera privata.
Ne consegue una traslazione semantica: con privacy non si intende più solo l’ottocentesco diritto a essere lasciato in pace – la tutela dell’intimità –, ma anche situazioni, come vedremo, più complesse. Un mutamento del linguaggio che rivela un cambiamento profondo, un paradigma culturale e politico diverso: siamo davvero entrati in un’epoca nuova, quella appunto dell’informazione e di Internet.
Due realtà collegate ma distinte, perché alla prima, che dietro sé ha secoli di storia, sono stati posti nel tempo limiti piuttosto severi (purché sia fatta in modo serio, ovviamente), mentre al secondo, un neonato da un punto di vista storico, ancora no, anche se ormai quasi tutti i Paesi occidentali si sono dotati di norme per difenderci dalla pervasiva diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In questo senso l’Unione europea sta facendo da pioniera, visto che nella sua Carta dei diritti fondamentali opera una distinzione tra il tradizionale diritto “al rispetto della propria vita privata e familiare” (art. 7) e il “diritto alla protezione dei dati personali” (art. 8), che si configura così come un diritto nuovo e autonomo.
La tutela della privacy si colloca quindi in quel sottile limite che separa l’esigenza comune a ognuno di essere lasciato solo, alla quale si contrappone l’esigenza altrettanto comune di entrare in contatto con gli altri. Oggi però viene intesa non solo come la necessità della protezione dell’intimità, non solo come il divieto di impedire ad altri la raccolta e la diffusione dei dati personali, ma anche come il diritto di sapere se ci sono e quali sono le banche dati che contengono informazioni che ci riguardano, quale uso ne viene fatto, a chi saranno comunicati e in che ambito verranno diffusi, nonché quello di accedere a questi dati e farli correggere se scorretti o cancellare se illeciti (un’impresa senza fine, poiché le registrazioni non si arrestano mai).
Di conseguenza la tutela della sfera privata non può essere più circoscritta ai soli dati “in uscita” (divulgati da noi direttamente o indirettamente tramite ad esempio i cookies), ma deve riguardare anche quelli “in entrata” (informazioni non desiderate, spamming, truffe…).
Paradosso finale, proprio negli anni in cui è cresciuta la consapevolezza dell’importanza individuale e sociale della privacy fino ad attribuirle il rango di diritto fondamentale, si sono realizzate forme di (in)consapevole erosione proprio di questo diritto. In particolare grazie alle reti sociali: si va sui social per essere visti, per acquisire un’identità pubblica permanente o comunque ben superiore al quarto d’ora di notorietà che Andy Warhol riteneva essere un diritto di ognuno. Si alimenta il pubblico per dare senso al privato, si esibiscono informazioni personali – il corpo digitale – così come si esibisce il corpo fisico, per cui le persone mettono spontaneamente in rete un’enorme quantità di informazioni esponendosi a invasive strategie di marketing – non per nulla gli usi commerciali di Internet sopravanzano ormai tutte le altre sue utilizzazioni. È l’identità che si fa comunicazione, l’intimité che si fa extimité (Jacques Lacan).
Problemi che ritroviamo quando si considera la dimensione dell’Internet delle cose e dell’autonomic computing (reti costruite prendendo a modello il sistema nervoso).
Siamo ormai a un passo da quello che alcuni ricercatori hanno definito digital tsunami, oppure siamo in presenza di un Giano bifronte, portatore a seconda dei casi di vantaggi o svantaggi?
Il digitale è ormai una realtà con la quale dobbiamo fare i conti; è impossibile liberarcene con una negazione o una semplice ripulsa. Anche perché ci ha permesso di entrare in possesso di strumenti che ci hanno liberato da molte servitù di tempo e spazio e hanno reso più agevole la vita delle persone, le relazioni sociali e l’accesso alla conoscenza. Ed è appunto da questo aspetto che inizia il professor Marc Langheinrich, Decano della Facoltà di scienze informatiche dell’Università della Svizzera italiana, per introdurci in questo mondo, per molti aspetti sconosciuto ai più “ma che dobbiamo imparare a gestire, perché è evidente che l’informatica, oltre a facilitarci molto la vita, ci ha aperto infinite possibilità, e altre ce ne aprirà in futuro”.
Forse “non ci ha donato più tempo libero, anzi per certi aspetti ci costringe a lavorare di più aumentando il nostro stress”, ma comunque il professor Langheinrich non ha dubbi: il risultato è positivo, anche per la privacy. “La maggior parte dei dati che lasciamo in rete si tramuta in un vantaggio. Gli ospedali li utilizzano per curarci meglio, delle app ci informano sul nostro stato di salute, l’online banking ci ha liberati dalla necessità di rispettare gli orari degli sportelli ecc.”. Gli esempi potrebbero essere numerosi. Importante è comunque “comprendere il modello di business delle imprese digitali: o io utente pago ‘cash’ per il servizio che mi danno (gestione e analisi dei dati compresa), oppure queste aziende devono trarre profitto da altro”. Come appunto le nostre informazioni personali, che sono tra le “merci” più ambite. Per questo “dobbiamo stare molto attenti a chi lasciamo i nostri dati”. Chi sceglie di utilizzare una tecnologia ha infatti la responsabilità di valutare, ogni volta e caso per caso, ricadute e conseguenze, e trarne le sue conclusioni.
Il Decano Marc Langheinrich
Come per la tutela della privacy, anche per la sicurezza informatica ci si muove su un limite sottile. “L’informatica è teoricamente in grado di creare sistemi sicuri al 100%; però tutti noi vogliamo essere collegati con il mondo esterno, le aziende ancor di più, per cui una porta da qualche parte dobbiamo aprirla”. E se la porta è aperta, qualcosa può fatalmente scivolarvi attraverso. I recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale (IA) stanno cambiando questo equilibrio in modo significativo. Pensiamo ai social network: è facile dimenticare che non doniamo solo i nostri dati, ma anche quelli degli altri. L’esempio classico sono le fotografie in cui “non appaio solo io ma anche altri (figli, parenti, amici…) che non mi hanno dato il permesso di farlo”. Da un lato, “le tecniche avanzate di IA permettono oggi di sostituire e proteggere i volti delle persone ritratte con altri di loro invenzione, autogenerati da un software”. D’altro canto, “l’intelligenza artificiale facilita anche nuove truffe, perché ora è semplice trovare in rete un filmato o una foto e in pochi secondi elaborarli” per creare qualcosa di ingannevole. In tal senso, la nostra responsabilità resta quindi ineliminabile, e deve poggiare sul buon senso, la cautela e “l’educazione in merito alle implicazioni di questa vita iperdigitalizzata”.
Naturalmente è necessaria anche una risposta istituzionale. E qui Langheinrich concorda sul fatto che “in Europa abbiamo un buon livello di tutela della privacy e di protezione dei dati”, un livello che naturalmente è in continua evoluzione, poiché “ogni tanto accade qualcosa di inaspettato, come lo scandalo di Cambridge Analytica”, che ci costringe a rivedere le norme. “Tracciare un limite, per la politica, è difficile” ammette Langheinrich. “Però è essenziale avere leggi forti, aggiornate e performanti”, che ci permettano di contrastare coloro che hanno scopi illeciti. È importante anche che la politica prima di introdurre delle “novità in settori fondamentali, come l’e-voting, la salute o l’energia, valuti molto bene i rischi per la sicurezza e le implicazioni per la nostra esistenza e la nostra società”.
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