Confrontarci con l’altro ci costringe a capire noi stessi, a costruire quello che siamo e, possibilmente, sapere come vogliamo crescere
Immaginiamo una macchia, nera, una grande, enorme macchia nera, nerissima. Oltre questa macchia non c’è niente. La macchia è tutto e occupa tutto. Potremmo anche abbandonarne il concetto, quello di macchia, ma manteniamone l’immagine, così abbiamo una forma e possiamo pensare. L’infinito non è immaginabile, come potremmo pensare, ovvero acchiappare nella nostra mente, qualcosa di illimitato? Ebbene, abbiamo questa immensa macchia ove al suo interno incomincia a delinearsi una seconda macchia; di codesta macchia non sappiamo niente, tranne che si distingue dalla macchia nella quale è contenuta, per cui ha la caratteristica di essere un’altra macchia. Potremmo azzardare una prima ipotesi, dire che sono simili, ma se facessimo uso del concetto di somiglianza dovrebbero esserci altre macchie, disponibili a offrirci un paragone entro le macchie. Ciò ci permetterebbe di stabilire un insieme di qualità emergenti dal confronto che stiamo inventando; in ogni caso si porrebbe un problema dal quale è difficile sfuggire, dato che abbiamo una, due, tre o più macchie che, prima di somigliarsi, hanno un impatto sulla percezione di chi le guarda: sono diverse, differenti l’una dall’altra.
Insorge un assunto, dal quale non possiamo prescindere: la differenza è primaria, si erge a dato di fatto, è lampante, ovunque, si offre dappertutto senza essere cercata e, volente o nolente, emerge naturalmente; la somiglianza, invece, che è sì una necessità (abbiamo bisogno di trovare somiglianze intorno a noi) è secondaria, un artificio partorito dal nostro essere, per natura costruito sulla differenza, condizione indispensabile per la nascita di una coscienza. Se usassimo una metafora biblica la differenza sarebbe il male (per questo nel mondo il diverso è attaccato, rifiutato, vilipeso) poiché rompe quella condizione di estasi paradisiaca in cui posso conoscere e riconoscere tutto intorno a me, luogo dell’uroborico appagamento bastante a sé stesso, ove il bisogno non esiste poiché tutto è soddisfatto. Non esiste più variazione, tutto è il medesimo; è il posto dove la macchia torna una e sola, espandendosi a occupare ogni spazio e, come prima, potremmo abbandonarne il concetto: è di nuovo tutto, e la sua infinitezza non ammetterebbe disuguaglianze.
Ricapitoliamo e specifichiamo: la differenza è l’uscita dal paradiso (qui inteso come il non essere, l’assenza di coscienza, ciò che rimane inconscio, non differenziato), che determina la discesa sulla terra (l’essere, la presa di coscienza che, per sua natura o indole, discrimina e distingue, ovvero differenzia). La somiglianza permette il riconoscimento di me nell’altro, evoca una simpatia e una vicinanza, è una minor differenza, come se fosse una sorta di primo timido tentativo di recuperare l’eden che fu, ovvero l’uguaglianza. Ecco allora un altro concetto che richiama la metafora del paradiso perduto descritto sopra, che potremmo mettere in coda agli altri termini nella parentesi: uguaglianza. L’uguaglianza è il magnete che stimola il riconoscimento e il dialogo, essere uguali all’altro, infatti, permette di abbassare le difese identitarie. In un tempo non troppo lontano una persona normale incontrava, sì e no, duecento persone in tutta la sua vita, il forestiero era il diavolo! Detto questo, è fondamentale tenere a mente che la ricerca del “come me” non può realizzarsi, deve rimanere un miraggio, una chimera, altrimenti sarebbe una regressione allo stato pre-cosciente, indifferenziato e infantile, ancora non sviluppato.
Ritornando alle nostre amiche macchie: la prima macchia deve potersi riconoscere nella seconda, e così vale il contrario, e la possibilità del riconoscimento è data dalla loro differenza, che in questo caso è identica al suo concetto contrario, o perlomeno opposto: la somiglianza. La somiglianza è una differenza? Procediamo oltre, perché i sentimenti che scaturiscono dalla loro presa di coscienza si mettono vigore a vicenda, riconoscendosi ed escludendosi: l’uno aumenta mentre l’altro diminuisce, e viceversa. Ma se escludiamo il sentimento che portano con sé, possiamo scoprire una cosa fondamentale: la differenza è l’opportunità di fare coscienza, la somiglianza è l’occasione di tollerare il nuovo come parte di me, in altri termini questo significa integrazione, cibo digerito e assunto. Diventa naturale, a questo punto, sottolineare quanto gli opposti ci determinano: l’altro, l’oggetto e le sue qualità, ogni volta che viene distinto, innesca una reazione; più la qualità con cui si entra in contatto scardina lo status quo, l’idea di noi stessi, la nostra concezione del mondo, più la reazione che avremo sarà attraversata da un atteggiamento contrario ad essa, poiché l’oggetto elicita una risposta in noi che non possiamo (non vogliamo) riconoscere, però essa è anche la possibilità di scardinare una logica personale, determinando una possibilità di fare coscienza.
Procediamo oltre nel nostro ragionamento e introduciamo un ultimo concetto. La differenza è perlopiù ‘inferiore’, inteso nella sua accezione junghiana. Senza entrare nei dettagli, inferiore è qualcosa, come una caratteristica, un atteggiamento, una propensione o un modo di essere e agire, che non è completamente alla mia portata, non pienamente utilizzabile o consapevole, che non uso con dimestichezza, non padroneggio o non ho pienamente riconosciuto, fatico dunque a ritenerlo mio. Se estendiamo il concetto alla differenza, essa è inferiore perché non mi appartiene, non la riconosco, non sono io, o, meglio ancora: lei non fa parte di me. Di conseguenza l’incontro con l’altro (in me, fuori da me) si traduce nell’esposizione di una personale suscettibilità, accompagnata da una reazione, che si realizza nell’espressione di una nostra caratteristica con la quale ci dobbiamo confrontare. Il bivio è pronto davanti a noi: cosa stiamo scoprendo, andiamo a destra o a sinistra, ci riconosciamo o rifiutiamo? La logica che dobbiamo bene tenere a mente è: meno riconosciamo, più releghiamo (o lasciamo) nell’inferiorità la caratteristica che abbiamo giocoforza incontrato.
Ora vorrei che dessimo forma a un’immagine che ci può aiutare nella comprensione di quanto scritto. Poche cose meglio di un’immagine riescono a catturare e rappresentare un concetto, un pensiero, forse proprio perché le immagini, le fantasie, i racconti, ma anche le esperienze, quanto ci accade, sono pensieri in nuce che attendono di venire scoperti nel momento che più gli è adatto. Ricordo un personaggio che evoca un aspetto importante della nostra moderna concezione del mondo.
Era un colossale gigante con mani piccole e piedi enormi, grandi quanto una città e pesanti come una catena montuosa. I suoi piedi, abnormi anche per un gigante, vivevano di vita propria, mossi dall’unico desiderio di schiacciare il terreno sotto di essi. In cambio, offrivano al gigante un unico e fondamentale servigio: reggevano le sue gambe, che a loro volta sostenevano il resto del corpo sino a quel solitario capello, greve di responsabilità, perché in fondo era sì, unico e solo, cicciotto, grosso, unto e lungo, riccio e appiattito, che, annodato attorno allo scalpo, aveva il compito di irrorare del suo grasso il viso che si stendeva sotto di sé. Il viso del gigante era una faccia, una faccia paffuta e rotonda, emergente tra infinite rughe, quasi solchi, letti di fiumi che da tempo immemore parevano andati altrove, allontanati dallo spazio che occupavano. Poteva capitare che le rughe incontrassero le piccole dita delle mani, impegnate a raccogliere il tempo che si appassiva nella pelle che toccavano, nascosta dal buio e oscurata dalla mancanza di luce. Discrete e timide, assolvevano la loro funzione con lenta pazienza, consapevoli di essere appassionate conservatrici di racconti. Ogni tanto prendeva loro il vizio di creare pensieri, e questo non era mai un bene, perché si accorgevano delle conseguenze dell’atteggiamento dei piedi che, a differenza delle mani, pensavano molto ma molto male; forse è per questo che si dice pensare con i piedi! Quando accadeva, quando i piedi pensavano, il viso del gigante si corrugava sempre più, dubbioso e incerto di quanto stesse accadendo in lui e, muto, impotente e inerme, attendeva che le sue gambe smettessero di seguire i piedi e si fermassero, esauste. In fondo i piedi assolvevano un compito che coincideva con un destino, come detto: schiacciare il terreno. Il loro peso non ammetteva salvezza, tutto distruggeva e tutto riduceva in poltiglia. Il gigante se ne doleva, triste ammetteva il suo sconforto, e, quasi ogni giorno, si chiedeva perché i piedi avessero questo insoddisfacibile bisogno, senza fine e illimitato. Poi si convinceva che era la condizione necessaria alla sua esistenza e, allora, tornava in sé, ritirandosi nella sua mente, immaginando infinite storie, coccolato dal suo unico capello che, svolazzante, gli accarezzava la fronte, ungendone la pelle, ora impregnata di grasso, luccicante e luminosa, sfavillante e pensierosa.
L’immagine è favolosa, sintetizza quanto abbiamo detto ed esige una riflessione, poiché ci offre degli spunti importanti. Il gigante si sottrae alla coscienza di sé per via dei suoi piedi abnormi, lontani dalla normalità, non riconoscibili e non riconosciuti. La sua sottrazione è una rassegnazione, determina un rifiuto e una presa di posizione chiara e netta: il ritiro, che è un allontanamento ma anche una fuga.
I piedi sono così relegati nell’inferiorità, e lì operano attraverso la loro cieca e imbranata goffaggine, conseguenza della loro mole e origine della loro distruttività.
Questa è la sorte che può incontrare un mancato riconoscimento: l’oggetto rifiutato acquisisce importanza e, incarnandosi in un destino, diventa protagonista nell’ombra. Elusa la possibilità di coscienza, la differenza vive solo nella sua accezione di contrasto, lasciando vivere il gigante escluso nella sua in-coscienza. L’impatto finale dei movimenti del gigante è infatti una poltiglia, e cosa possiamo discriminare in una poltiglia?
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