Sempre di più gli adolescenti sono confrontati con due mondi: quello virtuale e quello reale. Ma le dinamiche da imparare per gestirli sono agli antipodi
Nel dicembre 2021, la cantautrice Billie Eilish, nota star del panorama adolescenziale moderno, ha rilasciato a una emittente radio statunitense la seguente dichiarazione, che è stata ripresa in tutto il mondo con grande risonanza. “Penso che il porno sia una disgrazia”, ha detto la cantante, "ne ho guardato tanto, per essere onesti. Ho cominciato a undici anni perché mi aiutava a sentirmi ‘cool’ e ‘una del branco’. In realtà mi ha distrutto il cervello, mi ha dato incubi perché il contenuto che guardavo era spesso così violento”. Nel prosieguo della intervista, Eilish ha ancora approfondito come lo scollamento fra l’esperienza nei video e quella reale sia stata così abissale, tanto da renderla incapace di praticare una vita intima soddisfacente, preda di ansie e turbe emotive.
Billie Eilish al momento in cui scrivo è prossima ai 22 anni, ne aveva 19 all’epoca dell’intervista. Anche se particolarmente esposta alla notorietà, la sua adolescenza rispecchia le caratteristiche di questa fase della vita. Questo breve estratto mi ha sollecitato a diverse riflessioni attorno alle esperienze adolescenziali, in particolare nella scissione fra esperienze reali e virtuali. Non è un caso che la dissonanza provata dalla cantante abbia prodotto una reazione così profonda, tanto da definire il proprio cervello “distrutto” e i propri sogni funestati da “incubi”. L’attenzione mediatica rivolta alle sue parole è stata certamente proporzionale all’importanza di colei che si è esposta attraverso la dichiarazione, ma penso che sia stato proprio il tema, già soggiacente in un limbo preconscio della società, ad aver trovato il bisogno di essere trattato dopo un’esternazione così reale.
Il concetto di adolescenza è da ritenersi una conquista della nostra società, del nostro tempo. Dal momento dell’acquisizione di una certa autonomia funzionale e, soprattutto, di una certa forza concettuale l’infanzia prima, e l’adolescenza poi, hanno avuto modo di essere riconosciute e protette. Il compito di sviluppo dell’adolescente è quello di riscrivere in una chiave nuova i valori e le certezze della fanciullezza, modellandoli a partire dal volere dei genitori o degli educatori, verificandone la veridicità mettendoli prima in dubbio, poi decomponendoli per comprenderli e trasformarli, assimilandoli come una propria voce narrante in grado di leggere il Mondo.
Da qui spesso lo scontro con il punto di vista dei genitori: ovvero la percezione che fra genitori e figli sussista una visione antitetica e irriconoscibile della vita. Per stravolgere così radicalmente i propri canoni è spesso necessaria tanta aggressività, quanta mai se ne immaginava. Gli adolescenti si trovano confrontati a una parziale lotta verso la famiglia, verso la scuola, talvolta verso il mondo dei pari e, soprattutto, nella sessualità (praticata o detestata, binaria o fluida, masturbatoria o relazionale) alcuni adolescenti esercitano la loro sfida verso il mondo. Costruire le fondamenta per una riscoperta del mondo orientata al sé parte, dunque, da un atto di violento dissenso interiore verso quanto noto.
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Anche Billie Eilish ha dovuto fare i conti con l’ansia
Eilish racconta del suo vissuto nel dominio della sessualità. Dominio sicuramente estremamente controverso, pieno di contraddizioni morali, retaggi infantili, necessità di difesa dalle proiezioni adulte nei confronti dei giovani. Il sesso in adolescenza diventa un modo nuovo di esplorare il proprio corpo, donandolo al piacere altrui pur conservandone il controllo, ma anche un’affermazione della propria identità intima e sociale. La Eilish è come tutti gli adolescenti della sua età, pervasa dagli stessi dubbi e perplessità circa il mondo adulto, benché la sua fama e il suo successo l’abbiano già proiettata da tempo nella celebrità, così precocemente esposta all’interesse adulto. Ogni ragazzo e ogni ragazza che debutta nel mondo adulto, attraverso lo schermo identitario imperfetto dell’adolescenza, sa bene quanto conti l’atto di sperimentazione per fare proprio ogni episodio di vita.
Le prime esperienze, affrontate con piglio, con sfida, anche con incoscienza, oppure vissute con pacatezza fin quasi in maniera timorata, talvolta evitate, sono il viatico della verifica del proprio assetto identitario alla luce del debutto nel mondo adulto. Ma per potersi porre al meglio di fronte ai quesiti identitari è fisiologica una forma di rottura degli schemi infantili, mettendoli in dubbio. Maggiore è la messa in dubbio, maggiore sarà la sfida, ovverosia la possibilità di angoscia – prescindendo dal noto – verso la stabilità, su nuove basi che fungeranno da premessa per il proprio ruolo adulto nel mondo. Ma cosa comportano queste sfide? Innanzitutto, una presa di posizione rispetto alle proprie prerogative infantili, ovvero la capacità di prescindere, in toto o in parte, dagli assunti ormai più che acquisiti nell’infanzia. In seguito, avviato lo smarcamento dalle prerogative infantili con un certo grado di libertà, è possibile ridisegnare il modo di approcciare le sfide rappresentate dalla quotidianità, facendo debita considerazione del proprio modo di stare al mondo: a scuola, a casa, alla partita, con il fidanzato, passando per il bar, il luogo di culto, quello ricreativo, e così via. Accettare le sfide identitarie è ponderare quanto la volontà, il desiderio di accettazione, di appartenenza, i progetti verso l’acquisizione di un ruolo nel determinato contesto, vadano di pari passo con la necessaria fatica d’inserirsi socialmente, scalare dei ranghi o, più semplicemente, accettando i ruoli disponibili nel contesto designato, verificando la propria potenzialità, la propria capacità di “graffiare” il mondo, di lasciarvi traccia. La ‘sfida identitaria’ è, dunque, la messa alla prova delle capacità di adattamento e apprendimento ai contesti per il tramite di una mobilitazione di risorse intellettuali, quali le scelte, e fisiche, quali l’impegno.
Queste esperienze, va da sé, che non possano prescindere dall’incontro con l’altro. È chiaro come sia inverosimile immaginare che una ricerca e una messa alla prova identitaria, possano prescindere dall’influenza dell’ambiente circostante, per esteso dalla società. A questo proposito va distinto l’effetto che il mondo infonde su ciascun adolescente. Oggi più che mai è palese la scissione fra reale e virtuale: la pandemia, in ordine temporale, è l’ultimo dei fattori che hanno indotto a un massivo consumo di relazioni virtuali, a scapito di quelle fisiche. Ma questa è stata solo un acceleratore di tendenze già avviate. L’esplosione nell’ultimo trentennio dei media ad alto consumo, ha viepiù acuito la divisione fra l’esperienza di un altrui reale e di un altrui irreale, non fisico ma presenza incorporea, incorporata (se mi si permette il gioco di parole) all’interno degli strumenti tecnologici, a loro volta psicologicamente inscindibili dalla nostra quotidianità. Il non-fisico è dunque immanente, sottinteso nella nostra relazione con la tecnologia che, per esteso, è buona parte del mondo degli adolescenti (e non solo).
Il mondo fisico offre una molteplicità di diversi attori, oggetto di combinazioni relazionali più o meno profonde, le quali – ciascuna a suo modo – celano un grado di conferma delle proprie aspettative. Le esperienze reali attivano verso la ricerca del simile esplorando le differenze, passando da un mondo fatto di identificazioni (aspettative) a uno più coerente al dato di realtà (constatazioni) e, pertanto, più integrato nelle sue sfaccettature. La realtà nell’atto di viverla, esplorandola, impone scelte. Vivere l’esperienza reale – a patto che ci si concentri sulla stessa – impone di doversi mettere in gioco nel mondo fisico, “giocando” con le proprie peculiarità e i propri difetti, al fine di suscitare nell’altro (reale) un riscontro.
Nel quadro della socialità virtuale assistiamo di frequente all’esatto contrario. Esiste sì anche in questo caso una ricerca di conferma, ma sulla base di una maggiore propensione a differenziarsi dagli altri, di esclusione. I giovani, lasciati soli di fronte al social network troppo precocemente, apprendono questa modalità di mettersi in relazione in cui solo il simile o l’uguale sono ammessi, immaginandosi che questo modello di conoscenza possa egualmente applicarsi al mondo reale, forgiando così caratteri reattivi alla disuguaglianza. Il mondo virtuale comunque possiede i mezzi per educare alla disuguaglianza, ma le necessità connesse al business, alla monetizzazione del like, troppe volte barattano questo potenziale educativo a favore della esaltazione in termini conflittuali delle differenze, impedendo una reale integrazione. Alla lunga questa modalità, basata sulla ricerca del simile deturpando la diversità, conduce piuttosto di frequente a forme di ghettizzazione o di bullismo, che in virtù della loro connotazione virtuale – dunque per il fatto che le chat, i post, i commenti, possono essere scritti in qualsiasi momento e perdurare anche in eterno – sono estremamente pervasivi e inducono a uno stato di continua esposizione.
Per concludere, torno alle parole della Eilish. È utile sottolineare quanto e come la cantante ammetta che l’esperienza irreale di una sessualità con il falso mito della pornografia (in cui il sensuale è funzione del piacere idealizzato a scapito del suo valore relazionale) sia stata per lei fuorviante, a tratti un incubo. Questo, in accordo a quanto detto poc’anzi, è dovuto al fatto che l’esperienza non modulata attraverso la fisicità del proprio carattere e dell’Altro reale, sia un impedimento alla comprensione della propria identità e al suo adattamento. Sostituire o dare la stessa importanza alle esperienze vissute nella virtualità rispetto a quelle reali, è il motivo per cui molto spesso ci troviamo di fronte a forti disadattamenti, fino ad ansie e depressioni. Nei contesti sociali, ciò che intercorre fra i membri del gruppo nutre l’immagine che abbiamo di noi stessi e ci aiuta a meglio orientarci nel tempo e nello spazio presenti. Mantenere il giusto confine fra reale e virtuale è l’unico modo per allenare le prossime generazioni ad avere maggiore cura verso i propri sentimenti, il proprio corpo e l’intero ambiente che dovranno gestire e governare.
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