Ci sono luoghi, lì, dove sento la presenza di esseri invisibili
Non sono mai stata una fungaiola di quelle che tornano a casa con lo zaino straripante di funghi. Non esco quasi mai dai sentieri marcati, ho un pessimo senso dell’orientamento e i pendii scoscesi mi mettono paura; non ho nemmeno un particolare sesto senso, o richiamo del fungo che dir si voglia. Ore di estenuanti camminate recitando il mantra “Sant’Antonio dalla barba bianca fammi trovare il fungo che mi manca”, senza scorgere nemmeno un fungo, tutt’al più uno o due di quelli “matti”. Quando a un tratto, eccolo: porcino bello come il sole, bambino neonato dopo un lungo travaglio e dolorose doglie. La fatica muta in gioia e di cuore ringrazio la natura per il preziosissimo regalo. Figli non ne ho mai partoriti, ma ho sempre sentito dire che funziona così.
I funghi mi piace raccoglierli, cucinarli, mangiarli, regalarli, congelarli, seccarli, ma il vivo godimento è quella frazione di secondo nella quale i miei occhi si posano e si fissano sul fungo finalmente scorto e immediatamente vengo pervasa dall’emozione dell’innamorata, sento le farfalle nella pancia, il tempo si ferma, non sento più l’affanno, il mal di gambe, la fame, la sete, e dopo aver tolto dalla terra e grattato con il coltellino la base del gambo del fungo riparto con nutrita nuova speranza di trovarne altri.
Da bambina mio padre mi portava a caccia con i cani, due setter: uno si chiamava Diana, l’altro Billy. Crescendo sono diventata vegetariana e ho rimosso dalla memoria i colpi di fucile e i tonfi degli uccelli che cadevano a terra inermi, ma ricordo con nostalgia le camminate nel bosco seguendo i cani, avanzando cauti facendo il minimo rumore quando questi stavano in ferma davanti al cespuglio dove si nascondeva la preda, mio padre che dava loro istruzioni di avvicinarsi lentamente e far spiccare il volo allo sfortunato uccello e a me di stare immobile e in silenzio. In una fotografia sbiadita degli anni Settanta che ora non mi riesce più di ritrovare, apparivo in fasce in braccio a mio padre. In una mano reggeva un fagiano a testa in giù, morto, il fucile a canna doppia tra le gambe appoggiato alla spalla.
Oggi, camminando nei boschi risano corpo e mente e permetto ai miei cani di percorrere piste odorose di selvaggina. Ammiro limacce e salamandre sul fogliame umido e bisce allungate al sole autunnale.
Ci sono luoghi, lì, dove sento la presenza di esseri invisibili. Spiriti che vivono negli anfratti tra le rocce coperte di muschio e le radici sporgenti di castagni e querce secolari, dove in ruscelli di acque fresche e limpide le natrici dal collare nuotano sinuose in cerca di pesciolini o ranocchie. Il tempo si ferma e mi ritrovo contemporaneamente bambina e anziana, il cuore innocente e la mente calma. Con gli occhi chiusi vedo la vita al di là della materia e sento vicine persone che si sono liberate del corpo ma che ancora desiderano vivere con noi. Nella natura terrena, ci chiamano.