La candidatura di Boris Bignasca al Consiglio di Stato è la dimostrazione del fatto che alla Lega il rispetto per le istituzioni interessa poco o nulla
Dal punto di vista puramente elettorale, è possibile che la scelta leghista si riveli vincente: candidare come terzo nome per il Consiglio di Stato Boris Bignasca – con quel cognome lì – può servire a galvanizzare i simpatizzanti. Si sventa anche così, l’assalto dell’Udc alla diligenza sovran-populista: risvegliando i nostalgici di "quando c’era il Nano", nel cui immaginario pulsa una Lega (ovviamente fiabesca) più di lotta che di governo.
Solo che Bignasca è anche quello di TiSin. E la formichina sarà pure ripetitiva, per carità, ma le pare quantomeno bislacco che un deputato faccia di tutto per aggirare, da pseudosindacalista, la legge sul salario minimo che lui stesso aveva approvato in Gran Consiglio. Che poi potrebbe essere qualsiasi altra legge, e Bignasca potrebbe rappresentare un qualunque altro partito e non averla neppure votata: semplicemente, non puoi screditare in modo così sfrontato l’istituzione nella quale sei imbullonato. Se poi, quando ti sgamano mentre cerchi di dartela a gambe, ti candidano pure all’esecutivo, beh: allora vale tutto.