I malumori progressisti tornano a orientarsi verso il ritiro di Biden: ‘Generoso’ decade come aggettivo d’ordinanza a favore di ‘tardivo’
All’inizio dell’autunno, mentre Kamala Harris sembrava veleggiare – o quanto meno beccheggiare – verso la Casa Bianca, il presidente Biden era celebrato dai suoi come un eroe nazionale. I suoi ultimi mesi alla presidenza somigliavano a una lunga prova abiti, con tanto di ricerca dell’angolo di luce perfetto per il monumento che presto gli sarebbe stato edificato. Barack Obama lo definiva “un patriota del più alto rango”, George Clooney lo salutava come “selfless” (“altruista” è una traduzione accettabile, ma debole) e Nancy Pelosi lo collocava “non solo dalla parte giusta della Storia, ma anche da quella del futuro”. Qualche maligno osservava, non del tutto a torto, che le steli di questi magniloquenti elogi erano macchiate della terra che i loro stessi estensori avevano appena finito di scavare sotto i piedi del presidente, costringendolo al ritiro.
Come per un anziano re che non può più guidare il suo esercito in battaglia e riceve la notizia della disfatta nelle sue stanze a palazzo, nessuno sa precisamente come Biden abbia preso la sconfitta di Kamala Harris contro Trump. I resoconti ufficiali lo hanno dato ovviamente per costernato, ma c’è chi dice che da quel risultato si sia sentito in qualche modo vendicato. Nel primo incontro per la transizione, in effetti, ha dato l’impressione di (ri)accogliere Trump alla Casa Bianca non solo con la fredda cortesia istituzionale che ci si poteva aspettare, ma con la strana allegria nervosa di chi assiste a un cataclisma borbottando che lo aveva previsto. I malumori progressisti tornano così a orientarsi nella sua direzione: “Generoso” decade come aggettivo d’ordinanza da associare al suo ritiro, a favore di “tardivo”. Quando i frammenti del mondo dem si ricompongono dallo schianto, lo fanno incollando un’immagine nella quale l’impopolarità di Biden era il macigno che rendeva la campagna di Harris un’impresa sisifea, generosa ma impossibile.
A intaccare davvero la legacy di Biden (un concetto che gli americani, avvezzi a stampare sulle banconote i volti dei loro presidenti preferiti, prendono molto sul serio), sono però le azioni di queste ultime settimane vissute alla Casa Bianca come un inquilino già sotto sfratto, azioni che sembrano voler abbracciare nel modo più ampio la visione del mondo del progressismo, solo per trascinarla a fondo con sé. A metà novembre c’è stata l’escalation in Ucraina, con il via libera a Zelensky sulle armi a lungo raggio verso la Russia, letta da molti – e da Trump stesso – come un cinico azzardo a spese del suo successore, anche se forse è stata più semplicemente l’unica mossa possibile per rianimare una strategia Nato agonizzante. E poi, in questi giorni, la grazia al figlio Hunter, peccatuccio d’amore paterno che sembrerebbe di rango minore, ma è uno spillo infilato nell’ingranaggio del discorso pubblico dell’ultimo decennio dei dem, il partito del “bene comune” contro l’“interesse personale” trumpiano.
Secondo uno spietato editoriale del New Yorker, “anteponendo le sue ambizioni personali alle sue responsabilità, Biden ha spianato la strada al ritorno di Trump a Washington” e ora “ha nuovamente ceduto ai propri desideri personali”, in uno “strascico appropriato a una presidenza tragica”.
Una vecchia battuta forse apocrifa di Winston Churchill diceva che “dagli americani ci si può aspettare che facciano sempre la cosa giusta. Dopo aver provato tutte le altre”. In mancanza di un secondo mandato, c’è il rischio che Biden non possa compierne la parte più lusinghiera.