Nessuno si strapperà i capelli dopo il terzo no in 15 anni a una pasticciata riforma della previdenza professionale
Nel 2010 una diminuzione ‘secca’ – dal 7 al 6,4%, senza compensazioni – dell’aliquota di conversione minima Lpp (il tasso con il quale l’avere di vecchiaia viene convertito in rendita quando si va in pensione) venne sepolta alle urne sotto una valanga di no (72,7%). Nel 2017 una sua riduzione dal 6,8 al 6%, graduale e ben compensata, all’interno di un pacchetto che si prefiggeva di riformare simultaneamente Avs e Lpp, fu respinta dal 52,7% dei votanti. Ieri il 67% di chi ha votato ha affossato un identico abbassamento del tasso di conversione, insufficientemente compensato. Poco meno di due anni fa l’allora consigliere federale Alain Berset aveva messo in guardia i ‘senatori’ dal cestinare un compromesso raggiunto tra i sindacati e una parte del padronato, poi trasmesso tel quel dal Consiglio federale al Parlamento. Ma il suo esplicito appello a non tirare troppo la corda è caduto nel vuoto. E così alla fine la corda s’è spezzata. Per la terza volta in meno di 15 anni.
L’aliquota di conversione minima resta dunque al 6,8%, sfasata rispetto alla realtà demografica (l’allungamento della speranza di vita, che vuol dire rendite da versare sempre più a lungo). Nessuno comunque si strapperà i capelli. Nemmeno quelle poche casse pensioni che assicurano il ‘minimo’ Lpp o poco più, per le quali questa riforma sarebbe stata tutt’al più una boccata d’ossigeno. Tranne qualche eccezione, anche loro – così come la stragrande maggioranza degli oltre 1’300 istituti di previdenza esistenti – hanno adottato da tempo gli accorgimenti necessari. Estendendo la copertura assicurativa oltre il ‘minimo’ (e potendo così applicare un’aliquota inferiore a quella prescritta dalla legge). Oppure chiamando alla cassa in vari modi i lavoratori attivi per finanziare le rendite dei pensionati.
La pressione sulle loro spalle non sparirà. Ma non va sopravvalutata. L’epoca dei tassi negativi sembra essersi chiusa, per ora. Gli istituti di previdenza sono tornati a macinare lauti profitti sui mercati finanziari. E il tasso di copertura medio non è mai stato così alto. Il prelievo ‘occulto’ dall’avere di vecchiaia dei lavoratori attivi per garantire le rendite dei pensionati? Persino la Commissione di alta vigilanza Lpp afferma che dal 2021 non si assiste ad “alcuna redistribuzione significativa” e non prevede sfaceli nei prossimi anni.
Altre sono le cose che vanno sistemate, dopo la bocciatura di questa pasticciata riforma. Le rendite Lpp delle donne sono tuttora in media del 35% inferiori a quelle degli uomini. Chi lavora a tempo parziale e/o guadagna poco o molto poco (anche qui soprattutto donne) continuerà a rimanere escluso dal secondo pilastro o ad avere solo una minima parte del proprio salario assicurato alla Lpp. Realtà tenaci, come almeno altrettanto tenaci sono i fattori strutturali (le disparità salariali di genere, la difficile conciliabilità tra lavoro e famiglia) che stanno a monte.
Sindacati e sinistra vorrebbero rendere il secondo pilastro più simile al primo, aggiungendovi un pizzico di solidarietà. Suonati per la batosta (un’altra, dopo la 13esima Avs), partiti borghesi e padronato sono invece sulla difensiva. L’Associazione svizzera delle istituzioni di previdenza suggerisce “una pausa radicale per riesaminare la situazione e ripristinare la fiducia nel secondo pilastro, che è stata seriamente scossa”. È la cosa giusta da fare. Nella consapevolezza che non è passando in primo luogo dalla Lpp – tagliata su misura per quella classe media che questa riforma avrebbe penalizzato – che si potrà rafforzare in maniera sostanziale le rendite delle donne, di chi lavora a tempo parziale e/o percepisce bassi salari.