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Eurovision, sul ponte sventola bandiera non binaria

Tutto questo proibire le bandiere in una gara canora, ancor più censurare il vessillo pacifista dell’orgoglio non binario, ci pare un’emerita euroidiozia

In sintesi:
  • Non si può tenere la politica fuori dai salotti musicali, nemmeno da quelli più esclusivi, perché esprimere un'opinione è di per sé un atto politico. Anche cantare lo è
  • Vale soprattutto per una manifestazione come l'Eurovision Song Contest che sbandiera da decenni, orgogliosamente, il suo appoggio alla libertà di genere e alle libertà in genere
Nemo
(Keystone)
13 maggio 2024
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Entra in sala stampa con un trofeo tutto nuovo. Il primo si è frantumato sul palco per l’entusiasmo. Nemo ha appena vinto l’Eurovision Song Contest, il primo della Svizzera dal 1988, il terzo nella storia delle sue partecipazioni. Nella press room l’artista si prodiga in dediche cariche d’amore indistintamente dirette alla sua Bienne, alla Confederazione tutta e ai suoi musicisti, alle nazioni giunte sul podio, a co-autori e co-autrici di ‘The Code’ e alla comunità non binaria di cui Nemo, prima persona non binaria a vincere la manifestazione, è paladinə. Di quella comunità ha mostrato in diretta televisiva la bandiera, quella dell’orgoglio non binario. “Volevano impedirmelo, ho dovuto nasconderla ma l’ho fatto ugualmente”, dice alla stampa, e si capisce che il divieto di sventolare bandiere che non fossero quelle delle nazioni in gara (lo proibisce un concorso che si autodefinisce ‘apolitico’) era esteso anche alle bandiere che esprimono concetti tanto cari all’Eurovision Song Contest, gara canora durante la quale negli anni si è cantato di body shaming, di orgoglio LGBT+, di integrazione, problemi mentali, depressione, abusi e soprusi fisici e psicologici, in canzoni che sono state anche singoli atti politici. Perché esprimere un’opinione è di per sé un atto politico; anche rifiutarsi di starsene ‘Zitti e buoni’, anche sventolare la bandiera della pace e quella dell’orgoglio binario, simboli che il contest sbandiera da decenni, orgogliosamente.

All’alba di domenica 12 maggio, quando scriviamo, non sappiamo dire se la reazione spropositata di uno Stato (radere al suolo una città) in risposta a un atto terroristico meritasse l’esclusione dall’Eurovision, e cioè lo stesso trattamento riservato lo scorso anno a un Paese che ne ha invaso deliberatamente un altro, radendo al suolo almeno una città. Pensiamo però che questa cosa del proibire le bandiere in una competizione musicale, ancor più censurare un vessillo pacifista come quello dell’orgoglio non binario, sia un’emerita euroidiozia. Tanto euro, tanto idiozia che alla fine il destino travestito da sensibilità (quella del popolo dell’Eurovision) ha voluto che i fischi più sonori della Malmö Arena andassero non all’artista israeliana in gara bensì a Martin Österdahl, il Vittorio Salvetti dell’Eurovision, supervisore esecutivo di un’organizzazione capace di mettere all’indice Eric Saade, cantante svedese fuori concorso, per aver cantato con la kefiah al polso durante la prima semifinale. “L’ho ricevuta da mio padre quando ero bambino per non dimenticarmi da dove viene la mia famiglia. Mai avrei pensato che un giorno sarebbe stata chiamata ‘simbolo politico’”, aveva replicato Saade dopo la scomunica.

Questo voler fare dell’Eurovision Song Contest un posto politicamente asettico a noi tanto ricorda il racconto di uno studente italiano nella Zurigo dei primi anni Settanta, dove sui lindi pavimenti di un ristorante del centro città, al piano di sopra, gli autoctoni in vestiti tradizionali ballavano nostalgici valzeroni mentre in un più polveroso scantinato italiani e portoghesi dissertavano di donne, letteratura, calcio e diritti degli stagionali. Tutto questo per ribadire che, a parte alcune eccezioni come ‘Il ballo del qua qua’, una canzone può sempre essere politica. Persino quella di Toto Cutugno che a Zagabria, Eurovision 1990, inneggiava all’Europa unita, fratellanza sancita due anni più tardi ma già avversa a molti. Tutto questo per dire che non puoi tenere la politica fuori dai salotti musicali, nemmeno da quelli più esclusivi. Tutto questo per dire che ieri abbiamo votato, e il verdetto è stato questo: Martin Österdahl, zero points.


Keystone
Nemo, bagno di folla all’aeroporto di Zurigo

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