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25 aprile e fascismo culturale

Oltre al fascismo grossolano e tronfio di certi nostalgici, ce n'è uno più subdolo, che cerca di svilire la potenza della memoria e di chi ne scrive

In sintesi:
  • Giorgia Meloni riduce tutto a una questione di soldi, rimettendo in campo la questione sul valore della cultura
  • Scurati è volutamente partito dal delitto Matteotti, chiudendo il cerchio con le stragi del ’44, ricordandoci come il fascismo fosse tutto sbagliato, dall’inizio alla fine
La presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni
(Keystone)
25 aprile 2024
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C’è un fascismo grossolano, urlato e tronfio che rivendica con orgoglio ciò che andrebbe invece fermamente disconosciuto (per essere chiari, il Ventennio tutto, dal principio, senza mettersi a fare ridicoli distinguo tra un prima e un dopo, un Mussolini buono e uno cattivo, mischiando capre e cavoli, bonifiche e pensioni).

C’è poi un fascismo più subdolo, nascosto e – proprio perché non urlato – perfino più pericoloso. Questa forma di fascismo sottile è rimasta tra le pieghe dell’ultima polemica sul 25 Aprile, quella sulla censura Rai di un testo di Antonio Scurati, in cui – dopo aver elencato alcuni dei grandi misfatti della dittatura, partendo dall’omicidio Matteotti (10 giugno 1924, cent’anni fa) e chiudendo con le stragi nazifasciste del ’44 – lo scrittore rimprovera l’attuale governo italiano di non aver mai preso chiaramente le distanze da Mussolini.


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L’ultima fotografia scattata a Giacomo Matteotti prima della sua morte

Ma qui non è nemmeno più questione di identificarsi o meno in camicie nere, balilla in parata e olio di ricino, ma di disconoscimento della cultura in quanto tale e del suo valore, non solo morale e sociale, ma economico. Nel post di Giorgia Meloni seguito alle polemiche – in cui ha copiato e incollato il testo di Scurati – emerge quella visione oscurantista per cui il lavoro intellettuale non è lavoro e chi fa delle parole un mestiere dovrebbe imparare a vivere d’aria o considerarlo un hobby, magari trovandosi un impiego vero.

Prima Meloni scrive chiaro e tondo che 1’800 euro (“lo stipendio mensile di molti dipendenti”) per un minuto di monologo sono troppi; poi aggiunge “lo pubblico qui io… e spero di non dover pagare”. Il messaggio che passa è sprezzante: per carità, possiamo anche discutere sul fatto se siano tanti o pochi 1’800 euro per un testo di uno degli scrittori italiani oggi più in voga. Inaccettabile è ridurre il tutto a “quanto mi costi per un minuto di monologo”. Tu non paghi il minuto di monologo, ma un tempo ben più ampio, quello dedicato dall’autore allo studio e al perfezionamento della sua scrittura; paghi la preparazione e la professionalità che stanno dentro al monologo, che è cosa ben diversa. Sarebbe come valutare lo stipendio dei meccanici di Formula 1 solo in base ai pochi secondi di un cambio gomme o la parcella di una visita medica dalla durata e non dall’efficacia della diagnosi.


Keystone
Benito Mussolini

Le parole di chi con le parole lavora non devono, non possono essere gratis (un equivoco che da tempo affligge i giornali) e denigrarne il valore (intrinseco ed economico) è il primo passo verso l’ignoranza e verso quell’altro fascismo, quello di grana grossa, ben rappresentato da certe chiamate a “La zanzara”, il programma di Radio24 che sdogana i fascisti dando loro voce, sì, ma esponendoli al pubblico ludibrio, alla pochezza dei loro argomenti e all’inefficacia della loro asineria.

Citando l’omicidio Matteotti, all’alba del fascismo, e poi le stragi di vent’anni dopo, al suo tramonto, Scurati ci ricorda non solo che tutto quell’arco temporale è da condannare, ma che i fatti vanno studiati e compresi. Per chi non trova il tempo di farlo, c’è il lavoro degli intellettuali, che quei fatti li studiano, li comprendono e poi li riassumono per noi. Se serve – e se sono abbastanza bravi – anche in un minuto di monologo.


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Lo scrittore Antonio Scurati