In vista delle Comunali sono in tanti a rivedere la loro collocazione partitica, perché ‘se il seggio mi sfugge qui, mi sposto un po’ più in là’
È una specie di Guida Michelin che ci indica dove è opportuno andare a consumare con soddisfazione. Parlo del Dictionnaire des Girouettes, edito nel 1815, con parecchie riedizioni aggiornate, l’ultima, a mia conoscenza (ma magari sono in arretrato), nel 1993. Con riferimento ai politici, i francesi ne spiegano il significato: “Ils changent d’avis come de chemise”. Girouette diventa voltagabbana in italico idioma, voltamarsina o “taiamedèga” in vernacolo nostrano. Una volta chi si macchiava “dell’orrenda colpa”, quella di cambiar casacca, si portava appresso un marchio indelebile e il pubblico disprezzo era assicurato. Successe fino agli anni 50 dello scorso secolo. Non poteva essere altrimenti: liberali e conservatori, gli storici rivali, erano l’espressione di concezioni contrapposte ed esclusiviste; ognuno aveva il proprio elettorato di appartenenza e passare da un recinto all’altro era inconcepibile: chi osava era un voltamarsina, inaffidabile per sempre.
Sfuggivano all’infamia i povericristi, i disagiati che per i partiti storici costituivano il bacino dei voti “mercantabili” a cui attingere in cambio di qualche franchetto. Ancora nel 1948, il procuratore Gallacchi confessava che “il debituccio da saldare presso l’oste o il pizzicagnolo” costituivano un ottimo argomento per guadagnare qualche voto e la piccola distribuzione di qualche moneta rappresentava il lato pittoresco della faccenda. Era questa la versione rudimentale del voto di scambio (oggi non in disuso ma assai più raffinato: il 75% dei funzionari pubblici di vertice, ci suggerisce un’inchiesta di alcuni anni fa, occupa il posto grazie a tempestiva “raccomandazione” e il merito è calcolato in funzione della colorazione del candidato).
Già ne scrissi anni fa e mi soffermo con tono garbatamente scherzoso e sommessamente semiserio, ma non troppo perché l’esito finale non è necessariamente dei migliori. Come disse Ennio Flaiano (cito a senso): “Troppa gente è piena soltanto di ambizione e troppi incapaci debbono affermarsi e ci riescono!”. Abbondano le conferme.
Perché riesumo l’argomento? Scorrendo i giornali mi accorgo che in vista delle Comunali sono in tanti a rivedere la loro collocazione partitica, in genere non perché folgorati sulla via di Damasco da nuove prospettive o improvvise conversioni ideali, ma più prosaicamente, così a me pare, perché se il seggio mi sfugge qui, mi sposto un po’ più in là.
In questi mesi sono discretamente numerosi i cambi di casacca: qualcuno passa al partito contiguo che gli dà ospitalità, in altri casi con acrobatica destrezza si transita da sinistra a destra senza batter ciglio. Non è necessario giustificarsi perché, in quella che qualcuno ha definito “la democrazia del pubblico”, a contare sono le persone e non i partiti. I partiti sono sullo sfondo, gusci vuoti o quasi che un po’ si assomigliano l’un l’altro, con idee sbiadite e confuse sul futuro; più che ad affinare le idee sono impegnati a gestire le risorse dello Stato e a occupare diligentemente gli scranni. Una precisazione: oggi l’elettorato è liquido, volubile, di opinione, si orienta in base a umori ed emozioni e il concetto di voltamarsina non è più applicabile. La coerenza e la fedeltà agli ideali è un vecchio ricordo: non è più l’idea a forgiare il politico ma piuttosto è il politico che modella gli ideali e li adatta come la plastilina a seconda della convenienza. Ci sono le eccezioni, ma non abbondano.
Insomma oggi siamo al “candidato-flipper” che, come la pallina del glorioso gioco di novecentesca memoria, schizza con destrezza da un posto all’altro alla ricerca non tanto delle idee giuste quanto della convenienza personale.
Chi sta subendo fughe repentine è soprattutto il partito liberale e il polo di attrazione è il populismo di destra di cui l’Udc è la massima espressione. Una sorta di acchiappamosche, l’Udc, che attrae irresistibilmente con argomenti appiccicosi chi è arrabbiato e cerca miglior sorte. Il “politico-flipper” è in definitiva un sottoprodotto della personalizzazione della politica.
Pialuisa Bianco, in un suo volumetto di qualche tempo fa (Elogio del Voltagabbana, Marsilio, Venezia, 2001), difende chi cambia opinione perché – dice – è uno dei pilastri delle società democratiche. Capisco e concordo, ma è lecito il sospetto che l’“effetto flipper”, messo in moto da molti candidati, sia dovuto non tanto ad aneliti ideali e a raffinate strategie politiche per perseguire il bene comune, quanto piuttosto al desiderio di restare a galla. Fa stato il manuale di Claudio Sabelli Fioretti (Voltagabbana, Marsilio, Venezia, 2004) che informa i politici sulla tecnica di “galleggiare come un sughero”. Mi pare un esercizio piuttosto diffuso.