laR+ IL COMMENTO

Taiwan e tutti i vantaggi dell’ambiguità

Terza vittoria consecutiva del liberal-progressista Dpp. I paradossi della crisi simboleggiata dall’‘isola che non c’era’ sono destinati a protrarsi

In sintesi:
  • La stampa internazionale ha dato una rappresentazione sommaria dell’esito delle elezioni
  • La realtà è che nessuna delle formazioni politiche di Taiwan auspica o ipotizza l’annessione alla Cina
I vicincitori (con il presidente eletto William Lai, al centro) festeggiano
(Keystone)
15 gennaio 2024
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Per decenni, in Occidente, fu l’‘isola che non c’è’. Taiwan, che chiamavamo Formosa, sulle carte geografiche sembrava una macchiolina di scarso interesse per il pubblico, tutt’al più consapevole che si trattava del ridotto su cui si era rifugiato con le superstiti e sconfitte truppe nazionaliste il generale Chiang Kai-Shek, sopraffatto in Cina dall’esercito di liberazione di Mao; prima o poi comunque destinata, quell’‘isola sospesa’, a essere conquistata e annessa alla grande madrepatria, che dal 1949 era governata dalla nuova potenza comunista mondiale. Dopo tre quarti di secolo, Taiwan è invece trasformata in “punto potenzialmente più pericoloso del pianeta”. Minacciosa intersecazione fra i due colossi mondiali, Cina e Stati Uniti. Con l’America che ne ha fatto la sentinella più avanzata del suo sistema di alleanze nell’Indo-Pacifico; e con l’‘Impero di Mezzo’ che ne rivendica l’appartenenza per suggellare il suo status di potenza globale, più che mai dopo l’arrivo di Xi Jinping al potere.

Così, mentre sullo scacchiere internazionale sono già in atto due conflitti che minacciano di esondare (Ucraina e Medio Oriente), la consultazione elettorale di sabato nell’isola ha cristallizzato un interesse senza precedenti. Con esito chiaro. Per l’Occidente, certo che la vittoria nella corsa presidenziale di William Lai, del Dpp, d’orientamento liberal-progressista, partito che si impone per la terza volta consecutiva, è uno schiaffo a Pechino nonché l’ulteriore consacrazione di un’indipendenza e di una democrazia a cui Taiwan non intende rinunciare; per altri, invece, il fatto che il neo capo dello Stato non abbia la maggioranza in parlamento, grazie alla relativa tenuta del Kuo Min-Tang (erede dei nazionalisti di Chiang Kai-Shek) relativizza l’irritazione di Pechino. Dunque, i progressisti vittoriosi e del tutto ermetici nei confronti di Pechino, i nazionalisti sconfitti più favorevoli al dialogo con la madre-patria. È la rappresentazione che ne ha dato la stampa internazionale. Davvero assai sommaria.

La realtà è che nessuna delle formazioni politiche di Taiwan accetta l’annessione alla Cina. Nemmeno il Kuo Min-Tang, democratizzatosi dal 1996, anche a costo di perdere il potere. Eludere questa verità ha forse vivacizzato il voto, ma distorto il suo significato. Rimangono i rischi. E i paradossi.

In primis, il doppio gioco americano. Gli Stati Uniti riconoscono Taiwan come Stato indipendente. Sostengono che il problema va risolto attraverso la formula ‘Una sola Cina, e due sistemi’: un’altra Hong Kong, per intenderci, con rischi annessi. A risultati noti, la Casa Bianca ha ribadito il non riconoscimento. È la “politica dell’ambiguità”, così la definiscono senza ritegno anche a Washington. Frutto della passata convinzione che il galoppante sviluppo economico cinese (grazie alla globalizzazione) avrebbe innescato la liberalizzazione del regime e favorito la soluzione pacifica anche dell’anomalia Taiwan. Pura illusione. In novembre a San Francisco, Biden e Xi hanno riallacciato il dialogo. Ma la Cina rimane il principale competitore ‘sistemico’ degli Usa. Mentre Taiwan continuerà ad affidarsi a un’ambiguità politica in cui, finché dura, l’Ovest ha tutto da guadagnare: sia tenendosi la “sentinella avanzata Taiwan”, sia perché ‘l’isola che non c’era’ è ormai un pivot economico, che vende al mondo il 90% dei semiconduttori più avanzati. Indispensabili all’economia tecno-globalizzata. Cina compresa.