Non è chiaro a cosa sia dovuto l'obnubilamento di cui è afflitta una parte della società israeliana (e non solo): per ora si contano soltanto le vittime
Sono almeno due i grandi scrittori che a un certo punto, nella loro opera letteraria, hanno voluto affrontare la questione della cecità. Cecità come allegoria di una determinata condizione umana (è in tale senso che qui vale il riferimento). Prima Ernesto Sábato con il suo ‘Rapporto sui ciechi’, capitolo fondamentale del volume ‘Sopra eroi e tombe’. Il protagonista del racconto di Sábato, Fernando Vidal Olmos, è convinto che i ciechi si stiano impadronendo del mondo attraverso una serie di complotti. Poi sarà José Saramago, con il suo saggio sulla cecità – pubblicato in italiano come ‘Cecità’ – a ipotizzare una sorta di mondo distopico in cui un’epidemia priva all’improvviso tutte le persone del senso della vista.
Fatto sta che al momento non è chiaro se l’obnubilamento di cui è afflitta una parte della società israeliana sia dovuto a una qualche questione epidemica o complottistica, oppure ad altro. E non ci si riferisce soltanto a quella naturalità con cui (non) si guardano i bombardamenti quotidiani che devastano le vite di migliaia di civili palestinesi inermi. Lo stato di smarrimento collettivo israeliano può condurre anche a tragici e assurdi episodi, come quello che nei giorni scorsi ha portato alla morte di Yuval Doron Kastelman, ora noto come ‘l’eroe di Gerusalemme’. Nell’attentato di fine novembre rivendicato da Hamas – in cui sono rimasti uccisi un rabbino, la direttrice di una scuola religiosa e una giovane incinta –, Kastelman, un avvocato e impiegato statale di 38 anni, è intervenuto dopo aver visto le prime fasi dell’attacco mentre si trovava nella propria auto, nella carreggiata opposta a quella degli attentatori. Ha sfoderato la pistola, ha attraversato di corsa quattro corsie e li ha sorpresi. La sua mira è stata precisa ed è riuscito a bloccare i killer, evitando così che il bilancio dell’attentato fosse ancora più tragico. Ma poi sono sopraggiunti due riservisti che l’hanno abbattuto, nonostante fosse in ginocchio sull’asfalto, con le mani sollevate, la pistola gettata a terra e implorante: “Non sparate su di me, sono israeliano, sono ebreo”. Nulla da fare, è stato colpito dai proiettili dei due soldati accorsi da un’altra direzione decisi a fermare i killer di Hamas: pensavano che fosse uno di loro e hanno sparato per uccidere.
Qualcosa di simile alla cecità pare stia colpendo pure buona parte dell’Occidente, che fatica a distinguere tra le proteste contro le politiche e le azioni militari israeliane e i gesti di odio antiebraico, catalogando tutto con l’etichetta dell’antisemitismo. “Perché si può criticare Israele senza essere antisemiti” è il titolo di un interessantissimo testo di Davide Longo – da poco ripubblicato dagli amici di Naufraghi –, dal quale si evince quanto possano essere considerati speculari l’odio e gli abusi subiti dagli ebrei durante secoli di diaspora a ciò che ha sperimentato la comunità palestinese, cacciata dalle proprie terre per dare luogo alla creazione dello Stato di Israele. “Nakba e Shoah sono termini drammaticamente simili”, conclude Longo.
In una recente intervista la senatrice italiana a vita Liliana Segre – respinta dai doganieri svizzeri ad Arzo ottant’anni fa e poi sopravvissuta all’Olocausto – ha affermato che, in prospettiva, teme l’oblio. Nel presente, invece, ci sarebbe anche da temere chi la storia non la dimentica, ma la strumentalizza; chi, accecato dall’odio, rischia di ripeterla.