Dopo la strage dello scorso 7 ottobre e la crudele vendetta israeliana, la parte più moderata del mondo arabo è sempre più lontana dal tavolo del dialogo
Adattata alla schizofrenica realtà regionale, la fiaba della rana e dello scorpione recita così: la rana si lascia convincere a trasportare lo scorpione al di là del fiume, ma a metà tragitto viene trafitta dal pungiglione avvelenato del suo passeggero, quindi periranno entrambi. “Non è logico”, esclama l’ingenuo anfibio. Risposta dello scorpione: “Ma da quando c’è logica in Medio Oriente?”.
È un po’ così anche per certe analisi dell’infinita tragedia israelo-palestinese. “Gli accordi di Oslo sono morti”, ha ritenuto la comunità internazionale, per trent’anni consegnatasi alla paralisi diplomatica. Non solo: da molte parti si sostiene che la terroristica strage dei civili ebrei del 7 ottobre sia il risultato di un progetto genocidario di Hamas contro il popolo israelita, e quindi che non abbia nulla a che fare con il fallimento del progetto per la creazione e la convivenza di due Stati in Palestina, dichiarato proposito della stretta di mano Rabin-Arafat del ’93 sul prato della Casa Bianca. Ma ecco che subito dopo gli stessi teorici di questa tesi, con le cancellerie di mezzo mondo, chiedono in coro che si faccia resuscitare Oslo. Consapevoli in realtà che il pigro e trentennale “statu quo” è stato terreno fertile per le parallele tragedie di uno Stato ebraico dove ha preso quota il sionismo-religioso, nonché per un jihadismo che a Gaza ha scelto gli infami metodi dell’Isis. Quindi, brusco risveglio: si recuperi Oslo. Al più presto. Ma nemmeno il ritorno a Rabin-Arafat è così semplice.
Oslo fallì per tanti motivi. Ne aveva soprattutto bisogno Arafat (per recuperare credibilità dopo il sostegno dato a Saddam Hussein) e venne sottoscritto in un rapporto di forze asimmetrico, col governo di Tel Aviv in grado di imporre una transizione che manteneva il suo controllo militare sui territori. Inoltre fu inaugurato con una divisione territoriale della Cisgiordania da incubo per i palestinesi (sostanziale ‘apartheid’). Fragilità di quella ‘road map’ che lasciava irrisolti tutti i nodi più stretti del problema: statuto di Gerusalemme, questione dei profughi palestinesi, confini post ’67, colonie ebraiche in espansione. “Bisogna costruire la pace come se non ci fossero i terroristi, e combattere i terroristi come se non ci fosse il processo di pace”, ripeteva Rabin. Ma fu proprio il terrorismo interno ad abbattere il premier, con le pistolettate di un giovane fanatico israeliano. Colpo di grazia definitivo su una speranza politica già fragilissima. Poi tutto precipitò. Allora, come tornare a Oslo? Come e con chi rilanciare l’idea dei due Stati?
Non si può certo contare sull’adesione di Netanyahu, ostinatamente contrario a una tale soluzione. Difficile fare affidamento sull’Olp di Abu Mazen, bersaglio di grande sfiducia da parte della popolazione palestinese (per palese incapacità e asservimento agli israeliani). Nemmeno immaginabile la trattativa con Hamas, autoesclusosi con la sciagurata mattanza di un mese fa e il cui obiettivo dichiarato non è un accordo con l’“entità sionista”, ma la sua semplice eliminazione. Il tutto mentre l’inaccettabile e crudele dimensione della vendetta israeliana, la terribile “punizione collettiva” imposta alla popolazione di Gaza, allontana da un eventuale tavolo di dialogo la parte più dialogante e moderata del mondo arabo-islamico. Dove poche sono le rane volonterose, e sempre più numerosi i pungiglioni avvelenati degli scorpioni disposti al suicidio collettivo (degli altri).