Lo scorso 14 ottobre è stato respinto un referendum che si poneva l’obiettivo di dare maggiori diritti ai primi abitanti del territorio oceanico
Il 29 aprile del 1770, quando la nave Endeavour dell’esploratore britannico James Cook sbarcò a Botany Bay, in Australia, scoprendo di fatto un nuovo continente, gli aborigeni vivevano in quei luoghi già da diversi secoli. Eppure, ancora oggi, nonostante i 984mila individui che rappresentano il 3,8% della popolazione australiana, vengono ritenuti cittadini di serie B. Poco più che degli Untermenschen, per usare un termine in voga nella Germania degli anni 30 nei confronti di alcune minoranze.
Fatto sta che alcuni giorni fa è stato respinto alle urne, con il 55 per cento di voti contrari, un referendum che si poneva l’obiettivo di dare loro maggiori diritti, riconoscendoli come i primi abitanti di quell’enorme territorio situato ai nostri antipodi. Di conseguenza la Costituzione dell’Australia non conterrà una “voce” specifica che rappresenti gli aborigeni. Questo nonostante la Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite avesse perorato l’accettazione della riforma costituzionale, che avrebbe “aperto la strada a un superamento del retaggio coloniale che, ancora oggi, è all’origine del sistema di discriminazione e di ineguaglianze di cui soffrono gli indigeni australiani”. “Un voto a favore – aveva scritto il Financial Times – avrebbe proiettato l’Australia in una nuova era”.
“Dobbiamo compiere un passo verso una riconciliazione razziale”, l’esortazione del premier laburista Anthony Albanese. Una riconciliazione di cui il Paese aveva bisogno visto che, attualmente, per gli aborigeni le condizioni di vita sono drammatiche: vanno in carcere molto più frequentemente che all’università, costituendo il 27% di tutti i detenuti australiani, sono preda di alcol e droga, e hanno una speranza di vita di 8-9 anni inferiore a quella degli australiani bianchi.
Chi ha avuto l’occasione di visitare l’Australia e di recarsi in regioni quali il Queensland si sarà reso conto che, per gli indigeni, sembra di vivere nell’Alabama o nel Mississippi di 50 anni fa. Con la differenza che in questo caso non esiste un Martin Luther King che si batta per i diritti civili di quei reietti, anch’essi di pelle scura. C’è, tuttavia, da sottolineare che una resistenza alla “voce” a favore degli aborigeni è arrivata anche da loro. Lidia Thorpe, la prima senatrice aborigena, ha detto “no grazie, questa non è la nostra Costituzione, perché venne redatta nel 1901 da un gruppo di vecchi bianchi e noi non vogliamo averci a che fare”.
Insomma, posizioni inconciliabili che mettono in difficoltà lo stesso governo di Albanese, cui viene rimproverato di non essersi sufficientemente impegnato a favore del ‘sì’. Lasciando spazio, secondo i critici, a una campagna di disinformazione di stampo trumpiano. Poi va anche detto che negli anni gli australiani ci hanno abituati all’impiego di metodi non propriamente blandi. Pensiamo, ad esempio, alla cosiddetta “Pacific solution” nella questione dei richiedenti l’asilo. Pacific, è bene specificarlo, con riferimento all’oceano. Dal 2001, infatti, gli asilanti vengono deportati nell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, oltre che nell’isola di Nauru. Anche in questo caso, come in quello degli aborigeni, Canberra se n’è fatta un baffo delle proteste dei difensori dei diritti umani.