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‘I have a dream’, il sogno del reverendo

Il 28 agosto 1963 a Washington, l’abilità oratoria di Martin Luther King produceva un messaggio che è andato oltre le istanze che l’avevano ispirato

In sintesi:
  • La forza visionaria contenuta in quel discorso sa parlare alla parte di noi più disarmata e più autentica
  • Della volontà di concepire grandi disegni ha sempre più bisogno la scuola che oggi riapre le sue porte
Sessant’anni fa al Lincoln Memorial
(Keystone)
28 agosto 2023
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Aveva un sogno, Martin Luther King. Ma probabilmente non immaginava, quel 28 agosto del 1963, a Washington, che il suo sarebbe diventato il discorso forse più citato dei successivi sessant’anni. Parole che oggi ancora, anche nel nostro microcosmo periferico, mentre al termine di un’estate infuocata la scuola riapre fra tempeste di grandine, non mancano di interrogare la nostra intelligenza e la nostra coscienza.

Quello del pastore attivista era un sogno di “libertà”, “giustizia”, “fratellanza”, delineava un orizzonte in cui le minoranze di colore nel suo Paese avrebbero presto rotto le catene dell’oppressione e dell’ingiustizia sociale. Di quella orazione, però, significativamente, si tende a ricordare una piccola parte. E di questa soltanto le sue parole portanti – “I have a dream” – ripetute in modo incalzante, in una sorta di climax che dalla realizzazione terrena del grande sogno americano ascende fino a tratteggiare l’inevitabile compimento di un disegno divino.

L’impressione, sei decenni dopo, è che l’abilità oratoria di MLK si condensi proprio nella forza iconica, in quella visionarietà simbolica del suo messaggio, paradossalmente destinata, soprattutto lontano dal suo contesto politico e culturale, a superare e lasciarsi alle spalle il perimetro delle istanze che l’avevano ispirata. In altre parole, nonostante sia tutt’altro che pienamente realizzato, del sogno del reverendo, ancor più delle rivendicazioni che gli davano consistenza, restano l’energia interiore, la forza ideale, la potenza immaginativa capaci di generarlo.

Proprio di questa capacità, o meglio volontà di concepire grandi disegni, di coltivare il campo fertile quanto impalpabile dell’utopia, di vedere oltre i confini dell’immediato e del tangibile, al di là delle secche dell’utile, crediamo abbiano sempre più bisogno la scuola che oggi riapre le sue porte e i ragazzi che torneranno ad abitarla.

Forse lo stesso MLK, nel tempo ripetutamente citato quanto banalizzato, ha involontariamente contribuito al progressivo affermarsi di quella retorica stucchevole del “credi nei tuoi sogni” che, approdata ai social, ci ammorba quotidianamente con la sua ingenua ottusa obbligata fiducia nelle nostre supposte illimitate risorse, intossicando soprattutto i ragazzi con l’incubo dell’inadeguatezza (“non sono abbastanza”), i sensi di colpa, il terrore del fallimento, l’angoscia costante che ne derivano. Una retorica, va detto, inevitabilmente individualistica, ombelicale, che si alimenta di una più o meno fasulla affermazione ed esibizione di sé: il superamento del limite, la liberazione dalle pastoie delle responsabilità individuali e collettive, il riconoscimento sociale; l’appartamento con vista, l’auto sportiva, un paio di scarpe. Insomma, un’apparente vocazione al desiderio, nel senso più nobile e pieno della parola, declassata a ricerca di una ricompensa personale, immediata, per altro affidata allo sguardo altrui più che al proprio.

Inevitabilmente, con il tempo, anche i messaggi più potenti corrono il rischio di venire svuotati di senso, entrando a far parte della storia di chi li riceve, confondendosi con essa. Però, il fatto che del discorso di MLK rimanga soprattutto quell’anafora – “Io ho davanti a me un sogno” – ci dice qualcosa della forza generatrice racchiusa nell’immagine che essa ci consegna, del bisogno profondo che va ad alimentare, della necessità condivisa di sfuggire il perimetro angusto della nostra quotidianità, di aprire sul mondo le finestre della nostra coscienza, di tornare ad alzare lo sguardo e puntarlo lontano: di sognare.

Orizzonti

Eppure, verosimilmente, mai come oggi chi vive giorno dopo giorno gli adolescenti si è misurato con le conseguenze di un progressivo soffocante appiattimento degli orizzonti ideali sul presente, su una dimensione di concretezza figlia del più misero pensiero utilitaristico; si è scontrato con il timore non tanto del futuro, ma di non avere più un futuro davanti a sé, di non saperlo vedere, di non poterlo immaginare. A tre secoli di fiducia illuministica nel fatto che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, alla promessa che l’umanità avrebbe costruito un mondo migliore in cui coltivare l’idea stessa di futuro, sembra essere succeduto un eterno qui e ora che brucia risorse materiali e ideali, un presente asfittico quanto paralizzante, che alimenta il senso di angoscia di chi con sempre maggior frequenza vede attorno a sé i segnali, reali o immaginari, di un avvenire dal volto inconoscibile, ostile, minaccioso. Gli abitanti del domani, in cerca di un nuovo patto, una rinnovata promessa che delinei nella loro quotidianità un orizzonte di senso.

Nelle sue ‘Lettere a un giovane poeta’, Rilke in modo sibillino spiega al suo interlocutore che non abbiamo mai alcuna ragione di lamentarci della miseria di ciò che ci circonda, che anche quando fossimo sepolti nella cella più angusta avremmo a disposizione un patrimonio inestimabile: i nostri ricordi, la nostra immaginazione. Come dire, non è il mondo a essere noioso, ma noi. Massimo Recalcati ci parla di una scuola che non vede più i ragazzi come tronchi storti da raddrizzare, ma che li mette a contatto con il vuoto che si portano dentro, uno spazio del possibile che necessita di essere esplorato e nutrito, un motore vitale che chiede di essere acceso per muoversi alla scoperta di sé e del mondo.

Al tempo dell’eterno presente, del più sterile edonismo che spaccia le mode sociali per sogni da raggiungere ed esibire, delle temperature che si innalzano e degli eventi meteorologici estremi che flagellano anche la nostra privilegiata provincia, al tempo della paura che goccia a goccia intossica gli animi e pietrifica le coscienze, ecco che il messaggio di MLK, decontestualizzato e ridotto ai suoi minimi termini, sprigiona una forza visionaria che sa parlare alla parte di noi più disarmata e più autentica. Quella bisognosa di nutrirsi di visioni ideali che travalichino il perimetro del conosciuto e dello strettamente personale, che ci sottraggano all’impero di un perenne oggi senza porte né finestre, che ci strappino alla spirale di un individualismo bendato per consegnarci realmente, pienamente a noi stessi; alla nostra felice condanna a osservare, ricercare, comprendere, immaginare, forse sognare qualcosa di più grande di noi e del nostro presente.