IL COMMENTO

Quando ero piccola ‘correvo dietro ai cani’

In occasione dello sciopero femminista di oggi, su tante piazze svizzere, un racconto personale di come si diventa, consapevolmente o meno, una ‘strega’

In sintesi:
  • Da bambina mi capitava di pensare che sarebbe stato meglio nascere maschio, per essere più libera
  • Da bambina protestavo perché vivevo i ‘doveri femminili’ come ingiustizie
“Strega femminista”
(Keystone)
14 giugno 2023
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Quando ero piccola mi capitava di pensare che sarebbe stato meglio nascere maschio. Credevo che se fossi nata maschio avrei avuto amici per la pelle, perché l’amicizia fra maschi ai miei occhi sembrava più vera del vero, rispetto a quella fra femmine che bisticciavano ogni tre per due, come se ci fosse un’anomalia congenita al genere che le mettesse le une contro le altre. Quando ero piccola mi capitava di pensare che sarebbe stato meglio nascere maschio, perché non avrei dovuto apparecchiare e sparecchiare, aiutare mia mamma in cucina («così impari»), oppure piegare il bucato, che è una cosa da donne. Quando ero piccola non protestavo di certo perché fossi consapevole della questione di genere. Vivevo quei “doveri femminili” come piccole ingiustizie che mi rubavano attimi preziosi di libertà, quella di cui abbondava la vita dei maschi. Io protestavo perché volevo giocare, leggere, disegnare, correre dietro ai cani. Volevo il tempo per fare le cose da bambini, mica la piccola donna.

Con il passare del tempo, le gabbie sono aumentate facendosi un po’ più strette, più o meno implicitamente. Per alcuni miei compagni di classe avrei dovuto indossare abiti più femminili, «che sembri un maschiaccio»; avrei dovuto fare ritmica, piuttosto che unihockey; ascoltare Laura Pausini e le Spice Girls, piuttosto che i Nirvana e i Metallica (sembrerò, diciamo, datata, ma era la musica della mia adolescenza). Da ragazzina continuavo a pensare che i maschi erano più fortunati, perché l’ordine naturale cui erano destinati era più vantaggioso rispetto a quello delle femmine. Vanno fatti dei distinguo, è naturale, perché ogni esistenza ha la sua esperienza fatta di contesto, mentalità, educazione, carattere. Ogni storia è a sé e la mia è fortunata.

Nonostante la normalizzazione e l’interiorizzazione di imposizioni sociali, crescendo la mia consapevolezza di genere è maturata, scoprendo che non era una questione solo mia, ma comune a tante altre, che se la passavano – e se la passano – anche peggio, facendo i conti col peso del proprio genere. Iniziavo a capire che la bambina che pensava che fosse meglio nascere maschio, a modo suo, aveva compreso come girava il mondo, benché si sentisse sbagliata a fare quelle riflessioni, che chissà che cosa potessero mai significare.

Senza alcuna pretesa analitica, senza fare appello alle donne che, nel corso della storia e ancora nel presente, hanno lottato e rivendicato diritti fondamentali, tematizzato fenomeni come discriminazione, sessismo, machismo; insomma, per scrivere queste righe mi sono chiesta “Clara, ti consideri femminista?”. La parola femminismo a molti è indigesta, come tanti altri “ismi” del resto, invischiati nell’ideologia che ha lo stantio epilogo dottrinario. Una parola spesso accompagnata dalla figura della virago che odia tutti gli uomini, che bisogna temere e scacciare come la peste nera (o una strega). Ma il femminismo – che non è uno solo – è anzitutto un movimento organizzato di tante bambine che a un certo punto si sono dette «non è giusto»; un movimento di protesta, affinché tutte le donne possano emanciparsi sul piano sociale, economico, giuridico, politico, lottando contro le varie dimensioni della violenza che le colpisce, decostruendo gli archetipi femminili fatti di stereotipi che limitano l’autodeterminazione. E questi sono ancora oggi i capisaldi della lotta femminista che ancora scende nelle strade reclamando spazio e tempo e dignità, facendo dello sciopero (oggi quello nazionale) uno strumento collettivo di denuncia e cambiamento sociale.