Le morti al largo della Calabria non sono solo colpa di Meloni e del suo ministro dell’Interno, che pure ci mettono del loro
L’ennesimo naufragio di migranti non è colpa del governo Meloni, o almeno non solo. Da decenni l’Unione europea – assecondata da svariati esecutivi nazionali, anche di centrosinistra, in Italia come altrove – rifiuta di affrontare la questione: ha smantellato i progetti di soccorso in mare, finanziato i lager nordafricani, bloccato qualsiasi progetto organico di gestione dei flussi, escogitato l’assurdo regolamento di Dublino e abbandonato le realtà costiere al loro destino. Perché come dice nel suo podcast l’attore genovese Luca Bizzarri, di fronte a un fenomeno storico del genere "la cosa più facile è fottersene. Ed è quello che il mio Paese – e l’Europa, che è il mio Paese – ha fatto negli ultimi cinquant’anni: ce ne siamo tutti fottuti".
Per inciso, è questa annosa indifferenza che induce a svegliarsi solo quando succede il peggio e parlare di "incidente", magari definendo "emergenza" spostamenti ormai epocali e palesemente inarrestabili. Poi però, certo, ci sono le responsabilità individuali. Quelle dei vecchi ministri italiani come Marco Minniti, che quando era all’Interno – in un governo a trazione Pd – è stato il primo a inventarsi codici di condotta per boicottare le navi delle Ong e a firmare un accordo col primo ministro libico Fayez al-Sarraj, affidando di fatto il controllo delle migrazioni a bande criminali (tra le quali quella che ci ostiniamo a chiamare "Guardia costiera libica").
Ma c’è anche la responsabilità dei suoi eredi, come il ‘capitano’ Matteo Salvini e il suo attuale Mini-Me, Matteo Piantedosi. Il quale, con il sussiego e la cinica gestualità della vecchia paglietta prefettizia, non si è lasciato sfuggire l’occasione per impartire perfino ai morti un alato "messaggio etico" (sic): se l’è presa con la "vocazione alle partenze sostenuta da un coro generale di consenso", ricordando che "quando si è in queste condizioni non bisogna partire. Non bisogna esporre donne e bambini a queste situazioni di pericolo". Incoscienti loro, insomma. Quando poi qualcuno gli ha chiesto "se lei fosse disperato, cercherebbe di raggiungere l’altra parte del mondo anche con queste condizioni del mare?", ha risposto con inossidabile burbanza: "No, perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi sempre che cosa mi devo aspettare io dal luogo e dal Paese in cui vivo, ma anche cosa posso dare io al Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso" (Kennedy, scansati).
Ecco: la prima tentazione, di fronte a empietà del genere, sarebbe quella di prendersela solo con la destra più estrema e populista, quella di tangheri come Piantedosi e di chi anche da noi ciarla di "migranti con lo smartphone", barche piene e "finti rifugiati". Ci sta, però non basta, anzi si rischia di cadere nel loro stesso gioco di strumentalizzazione degli eventi. Perché uno così non diventa ministro dell’Interno per caso, o solo perché Meloni e Salvini sanno vendersi bene. Lo diventa anzitutto perché per decenni non è cambiato nulla, col risultato che abbiamo preso a vedere certi disastri con lo stesso fatalismo col quale affrontiamo una giornata di pioggia. Ve lo ricordate il naufragio del Venerdì Santo 1997, quando una "carretta del mare" albanese fu speronata dalla Guardia costiera italiana, morirono 81 persone e dell’allora governo Prodi non si vide nessuno, tanto che Nanni Moretti accusò la sinistra italiana d’una "formazione politica, culturale, morale" ferma a Fonzie e a Happy Days? Da allora l’approccio è solo peggiorato: a Roma, a Bruxelles e pure dalle nostre parti. E forse ha ragione il vicedirettore del ‘Post’ Francesco Costa, che mette in guardia sul vizio d’intimare al prossimo di vergognarsi, perché ormai quel che prova a sentire Piantedosi è sì "un sentimento fortissimo di vergogna. Ma vergogna per me, per noi. Mica per lui".