Liz Truss rassegna le dimissioni dopo 45 giorni di governo e lascia il Regno Unito in preda a una profonda instabilità politica
Alla fine ha vinto la lattuga. La scommessa l’aveva lanciata lo scorso 14 ottobre il tabloid ‘Daily Star’ posizionando una fotografia di Liz Truss accanto a una fiorente insalatona, entrambe riprese live da una webcam. Quale delle due – era il termine della sfida ‘Liz vs lettuce’ – sarebbe durata di più? La lattuga oggi non è ancora avvizzita, l’effimera titolare del 10 di Downing Street invece è già di fatto una ‘has been’, una ex prima ministra relegata nella scompaginata storia della recente gestione Tory. Conquista comunque il primo scalino di un podio, quello dei record negativi: 45 giorni di un governo ‘short and chaotic’.
Mai nessuno aveva fatto peggio di lei. Paga lo scotto di un’esasperata ideologizzazione sfoderata con una disarmante baldanza: per far fronte a una crescita moribonda e a un’inflazione a due cifre, ha pensato bene di estrarre dal cilindro la vecchia ricetta tatcheriana del meno Stato e del trickle-down economics, la teoria che si basa sull’assunto secondo il quale favorendo fiscalmente i ricchi, per gocciolamento dei benefici, si favorirebbe tutta la società. «Non è perché non ha mai funzionato in passato che non deve funzionare ora», deve essersi detta la Truss. Così, invece di far rinascere il tatcherismo gli ha piantato quattro chiodi sulla bara.
Il suo fallimento è da ascrivere a un piano budgetario sconclusionato (meno tasse per i ricchi, sussidi alle famiglie per il caro energetico, ma nessuna indicazione sul finanziamento dei costi), poi corretto maldestramente in fretta e furia, ma che ha mandato in tilt i mercati facendo esplodere i tassi dei titoli di Stato e di rimbalzo il costo del denaro e le ipoteche (in un anno passate dal 2 al 6%). Ponendo così in serio pericolo il finanziamento del deficit, che proprio per l’esplosione dei tassi obbligazionari si sarebbe ripercosso con modalità devastanti sul ceto medio. Il primo campanello d’allarme lanciato dai mercati aveva portato alla più eccellente delle dimissioni dopo soli 38 giorni, quella del cancelliere dello Scacchiere Kwasi Kwarteng, l’uomo che aveva posto la sua firma su tagli fiscali mai visti in 50 anni e su una draconiana cura dimagrante budgetaria.
Il Regno Unito che lascia Liz Truss è contrassegnato da una profonda instabilità politica (dal voto favorevole alla Brexit, quattro premier: prima di lei, David Cameron, Theresa May, Boris Johnson). "Benvenuti a Britaly", titola ‘The Economist’. Il riferimento alla vita politica della Penisola è agli occhi degli inglesi infamante, considerando l’ironica alterigia con la quale da tempo immemore osservano la vita politica italiana. Oggi il Regno Unito viene di fatto riacciuffato dai fantasmi della Brexit: l’instabilità politica esplose proprio nel 2016, all’indomani del referendum mentre l’uscita dall’Unione europea ha ridotto gli scambi commerciali, provocando un calo delle esportazioni verso l’Europa e cacciando dal Regno Unito parte della manodopera continentale sulla quale si basava la crescita economica britannica.
Niente elezioni anticipate sinonimo di batosta, ovvio: dunque saranno gli stessi Tory a scegliere il nuovo leader. E il peggio forse ci attende dietro l’angolo. Sì, perché tra le diverse candidature – in pole position comunque il rigoroso ex ministro delle Finanze Rishi Sunak – all’orizzonte si staglia anche quella di ‘Borisconi’, alias Boris Johnson, popolare (sic) monarca della mesta pantomima politica in chiave albionica iniziata sei anni fa.