Lo svizzero è stato superato da Nadal e Djokovic come numero di Slam vinti, eppure è la dimostrazione che certi talenti occupano un posto speciale
Per molti il tempo si è fermato quel tardo pomeriggio londinese del 14 luglio del 2019, quando Roger Federer ha sprecato il secondo matchpoint della finale di Wimbledon contro Novak Djokovic. Quel dritto d’attacco corto, Djokovic che lo intuisce in anticipo, e passa Roger con un dritto spietato. Con in mano il premio dello sconfitto, qualcuno avrebbe desiderato che Federer la finisse lì, con la sua carriera e col tennis, che quel pomeriggio è stato particolarmente crudele con lui. Chi lo desiderava, lo desiderava per sé. Deluso da una sconfitta immeritata, spaventato che Federer potesse non tornare più a giocare nella forma scintillante tenuta per vent’anni.
Anche in quella finale era stato il migliore in campo, e il trofeo – il suo nono Wimbledon, a 38 anni – avrebbe rappresentato il finale perfetto di un romanzo generoso. Ma anche senza trofeo il finale conteneva una sua bellezza. Sarebbe stato un romanzo più amaro, e quindi più romantico. Un ritiro all’apice del dolore e di un tennis troppo puro per la banalità del contemporaneo. Ma la vita è più complicata di un romanzo.
Federer e Djokovic dopo la finale di Wimbledon 2019 (Keystone)
Da quel giorno il tempo è passato lento, con in mezzo un’epidemia mondiale, il tennis sospeso, e Federer alle prese con un ginocchio consumato dalle quasi 1’500 partite dedicate a uno degli sport più logoranti di tutti. Lui che col suo stile era riuscito a regalarci l’illusione di un tennis giocato senza sforzo, quasi del tutto immateriale, era alle prese con la consunzione materiale del suo corpo. Era alle prese col tempo che passa. Tutti noi, quindi, eravamo alle prese col tempo che passa. In questo tempo lento le notizie si sono rincorse clandestine. I bollettini sul suo stato medico rimbalzavano dai giornali alle chat degli innamorati di Roger, con un’unica speranza: che giocasse un ultimo grande Wimbledon, che potesse dare l’addio con i piedi sull’erba, regalandoci un commiato incorniciato.
Invece l’immagine del suo ritiro è un’assenza, nella forma di due fogli intestati buttati su un tavolo bianco, della sua immagine sorridente congelata mentre viene diffuso il suo messaggio audio, registrato chissà dove, chissà quando. Non sappiamo se aveva la solita aria gioviale, Roger Federer, mentre annunciava il suo ritiro in un discorso insolitamente lungo per le sue abitudini. Eppure un discorso come suo solito: nessuna lagna, nessuna tristezza, nessun rimpianto: "Ho riso e ho pianto, provato gioia e dolore, e soprattutto mi sono sentito incredibilmente vivo".
La vittoria inattesa agli Australian Open 2017 (Keystone)
Tutto attorno si elabora il lutto. Federer che si ritira è la perdita di un’esperienza estetica peculiare, tra le più appaganti del nuovo millennio, ma è anche il segno del tempo che passa inesorabile. Chi è nato negli anni 90 non ha mai conosciuto un tennis senza Federer, e in tanti si sono innamorati di questo sport da pazzi – lento e novecentesco – grazie a lui.
Guardandoci indietro, questi tre anni dalla finale di Wimbledon acquistano un senso diverso. Ci hanno dato modo di elaborare il lutto con la giusta distanza, e il tennis ha potuto immaginarsi senza Federer. Nuovi campioni stanno scrivendo nuove storie e Federer pare già appartenere a un tempo passato.
Con Serena Williams e Rafa Nadal (Keystone)
Alla fine non è stato il più vincente ma è stato il più amato, e l’amore attorno a sé, alle sue partite – trasformate in riti sacri – è la sua eredità, più dei trofei, più del suo tennis in fondo irreplicabile. In queste ore gli appassionati si scrivono col cuore pesante, ricordano le partite, si scambiano link di punti e momenti incredibili. In fondo capiscono che Federer non se ne andrà mai davvero. Come dice Roger nella chiusura della sua lettera, in una frase difficile da leggere senza gli occhi bagnati: "Al gioco del tennis: ti amo e non ti lascerò mai".
In Sudafrica nel 2005 (Keystone)