La ricomposizione del potere d’acquisto dei salariati risulta auspicabile e priva di rischi: a trarne beneficio sarebbe tutta l’economia
Arrotondando, possiamo dire che la massa salariale dei dipendenti pubblici del Canton Ticino ammonta a un miliardo di franchi all’anno (fonte: Consuntivo 2021). Nei giorni scorsi il Consiglio di Stato ha avviato al suo interno le discussioni per concedere, nel 2023, un adeguamento ai rincari per questi stipendi, il cosiddetto carovita. Di quale entità? Nessuno si sbilancia per il momento. I sindacati mettono le mani avanti: "La nostra richiesta è che venga riconosciuto pienamente il rincaro", ha detto a laRegione Raoul Ghisletta, segretario della Vpod. Le previsioni a livello svizzero indicano un incremento dell’indice dei prezzi al consumo attorno al 3% per il 2022. Ciò vorrebbe dire che un pieno riconoscimento del carovita nelle retribuzioni dei dipendenti statali implicherebbe una crescita della spesa pubblica di circa 30 milioni di franchi.
Se si tiene conto che l’obiettivo del governo – lo ha ribadito il direttore del Dfe Christian Vitta – è quello di presentare al parlamento un preventivo per l’anno prossimo con un disavanzo massimo di 80 milioni, la domanda sorge spontanea: può il Cantone permettersi un adeguamento di queste proporzioni? Le obiezioni le si conoscono già, dal famigerato freno alla spesa diventato legge (Decreto Morisoli) alle argomentazioni di buona parte degli economisti. Una a caso, quella dell’analista dell’Ubs Alessandro Bee: in una recente intervista afferma, giustamente, che in Svizzera "il motore dell’inflazione risiede soprattutto nell’offerta, che è insufficiente, e non nell’eccesso di domanda", per poi giungere alla conclusione – in contraddizione con la sua premessa – per cui "il rialzo dei prezzi potrebbe avere effetti sui salari, facendo partire una pericolosa spirale inflazionistica".
In verità, la ricomposizione del potere d’acquisto dei salariati sarebbe auspicabile e priva di rischi, tanto nel pubblico quanto nel privato, in particolare se si tiene conto che per il 2023 ci si aspetta "un raffreddamento della crescita economica" (sempre Bee). Non andrebbe inoltre tralasciato il fatto che ogni punto percentuale che i salari perdono nei confronti dell’inflazione determina una contrazione nei consumi e in ultima istanza nelle entrate fiscali dell’erario.
Che l’attuale crisi, energetica e non solo, comporti dei costi è evidente. La questione sta proprio nel capire in che modo questi costi vengono assorbiti dalla società: scaricarli sulle spalle dei più deboli (salariati e Pmi) contribuirebbe soltanto a rendere il problema più grave. Ecco perché la discussione da fare riguarda il ruolo che può e dovrebbe assumere lo Stato. L’esempio del carovita è calzante: in queste circostanze l’aggravio per le finanze cantonali diventa un problema secondario se si vuole scongiurare lo scenario peggiore, la stagflazione.
Ovviamente il discorso non riguarda soltanto i salari dei dipendenti pubblici. La decisione che prenderà l’Esecutivo su questo delicatissimo tema costituisce un segnale per l’intera economia: qualora il Cantone decidesse di compensare pienamente l’aumento del costo della vita ciò potrebbe incentivare un "effetto a cascata" in cui i privati, soprattutto le grosse aziende, seguano l’esempio (virtuoso) del più grande datore di lavoro del Ticino. Chiaro, sussiste pure il rischio della versione opposta: un gesto minimalista da parte del governo – il riconoscimento di una cifra simbolica –, che poi venga ricopiato nel privato. In questo caso, a perdere saremo tutti.