Alla fine il presidente della Fifa è solo un imbonitore come tanti altri, che però vende il prodotto più popolare del mondo
Viviamo in tempi accelerati, bulimici, moltiplicati. Mandavamo e ricevevamo sì e no 5 sms al giorno (anche perché li pagavamo), ora siamo inondati di notifiche 24 ore su 24. Il cibo si fotografava solo ai matrimoni e ai compleanni, ora se non esibisci online il piatto che hai davanti arrivano altre notifiche per chiederti come mai non hai mangiato. I giorni di festa erano una dozzina, sempre quelli, oggi – volendo – c’è sempre un motivo per festeggiare: da Halloween alla giornata internazionale della mangusta materica malgascia mancina mucillaginosa.
C’è l’app che accelera i messaggi vocali e il servizio streaming che ti fa vedere le serie tv a doppia velocità: le stesse serie tv che prima venivano centellinate, puntata dopo puntata, trasmesse una volta a settimana, e che ora ci vengono sbattute addosso tutte insieme. Ci autoconvinciamo che la soluzione sia vederle il più velocemente possibile: una specie di presa in ostaggio di noi stessi, una pratica che ci ha costretto a trovarle un nome inglese (binge watching) per renderla accettabile ai nostri stessi occhi.
C’è il robot per pulire prima e quello per cucinare in fretta. Così guadagniamo tempo per poter fare più cose. Il fatto che poi le facciamo tutte male viene considerato, chissà perché, un dettaglio.
Il Covid, si diceva, ci avrebbe insegnato a rallentare, a pensare meno al denaro, meno alla moltiplicazione di viaggi insensati e amicizie fittizie, a quella smania di voler accumulare futili esperienze, non per le esperienze in sé, ma per riempire vuoti, dentro e sui profili social.
In prima fila tra chi attraversa la pandemia con la stessa noncuranza di chi – di notte – si alza dal letto e va in bagno con la luce spenta c’è la Fifa. Il suo presidente, lo svizzero Gianni Infantino, si è messo in testa di far giocare il Mondiale di calcio ogni due anni: sfidando la tradizione (che lo vuole ogni quattro dal 1930), le nostre abitudini, il concetto di evento (amplificato proprio dal mix di eccezionalità e ritualità) e i calendari intasati delle leghe nazionali e delle federazioni continentali.
In un calcio con troppe partite, Infantino ha trovato una di quelle soluzioni contro-intuitive che in quei film in cui il protagonista rischia la vita sembrano una genialata, ma che nella vita reale non funzionano mai. La soluzione di Infantino è giocare ancora più partite, aggiungere squadre (dovrebbero essere 48, e chissà, forse così, riusciranno finalmente a qualificarsi anche il Liechtenstein o l’Italia), guadagnare più soldi: 4 miliardi, dice. E lo dice con un sorriso largo, guardandoci negli occhi, come se quei soldi conoscessero già la strada per arrivare al nostro Iban.
Alla fine Infantino è solo un imbonitore come tanti altri, stile pentole sul bus, che però vende il prodotto più popolare del mondo. Lo svilisce, lo svaluta, lo scarnifica e lo sottovaluta pure, sopravvalutandolo. Ovvero: pensa che aumentare le partite sia un modo matematico per aumentare gloria, fan e incassi. Non è detto che sia così, perché la gente prima o poi si stufa: non del calcio, che troverà un modo di sopravvivere a sé stesso, ma del baraccone intorno. E il baraccone è suo.
La cosa triste è che i maggiori oppositori di Infantino sono quelli come Infantino: le leghe nazionali, le società – che venderebbero l’anima alla Superlega, o anche al diavolo, se l’affare assicurasse una plusvalenza – e l’Uefa, che aumenta partite, ingigantisce coppe, inventa coppette e poi sbaglia i sorteggi. Per loro, la Fifa deve giocare meno perché devono giocare di più loro.
Ecco, se qualcuno deve proprio mettersi a capo di questa battaglia, che siano i calciatori (spremuti nel fisico) o il pubblico (spremuto nelle tasche), non la Juventus o il Real Madrid di turno, ingordi quanto e più della Fifa, i primi a non capire quanto la rarità sia un valore, e che il bello di un Real-Juve stava proprio nel fatto che era un evento raro, non scontato; renderlo ovvio, ripetuto e prevedibile è il primo passo per fargli perdere la sua aura. E così il Mondiale.
Il Maracanazo del 1950, la stella nascente di Pelé nel 1958, Italia-Germania dell’Azteca, l’Olanda bella e perdente degli anni Settanta, Maradona in Messico, il rigore di Baggio verso il cielo di Pasadena, la finale di Zidane e quella di Ronaldo non sarebbero storie e ricordi così nitidi se si accavallassero, se non avessero quattro anni di attesa e altri quattro di tempo per sedimentarsi.
La cometa di Halley passa una volta ogni settant’anni e se la ricordano tutti. Ora (astenersi astronomi) ditemi, così, su due piedi, il nome di un’altra cometa.