L’accordo sulla fiscalità dei frontalieri tra Svizzera e Italia è in via di ratifica. Il primo sì quasi unanime degli Stati parla da solo
Gli accordi si fanno in due, se no non sono tali. Compreso quello sulla tassazione dei frontalieri che ha avuto un iter a dir poco tortuoso. Anni di tira e molla sia da parte italiana, sia da quella svizzera (più dal lato ticinese, a dire la verità) soprattutto nella fase negoziale che è poi stata seguita da uno stallo, se non da vero e proprio gelo, diplomatico. L’intesa tecnica era di fatto firmata o meglio parafata già da anni (dal 2015), ma mancava il sigillo ministeriale che è arrivato solo poco prima della vigilia di Natale dello scorso anno. Fu il consigliere federale Ignazio Cassis, sceso personalmente a Bellinzona, ad annunciare l’avvenuta firma a Roma per conto di Ueli Mauer, titolare dello spinoso dossier fiscale.
Un accordo cercato da anni da parte ticinese che voleva rivedere l’intesa del 1974. Quest’ultima, dopo l’entrata in vigore della libera circolazione delle persone, era di fatto obsoleta imponendo la tassazione dei lavoratori frontalieri italiani solo sul territorio svizzero e riversando ogni anno il 38% del prelievo fiscale all’Italia che lo girava poi, attraverso un meccanismo di trasferimento interno, ai Comuni prossimi alla frontiera con la Svizzera.
Gli obiettivi ticinesi erano almeno tre: superare questa procedura; trattenere una quota più elevata di imposte alla fonte e cercare di rendere il mercato del lavoro transfrontaliero più equo, evitando che il differenziale fiscale esistente tra i due Paesi incentivi l’assunzione di lavoratori frontalieri a salari più bassi. Quell’accordo, lo ricordiamo, si applicava (in realtà continuerà a essere applicato ancora per i ‘vecchi’ frontalieri) ai soli lavoratori residenti nella fascia di venti chilometri dal confine con la Svizzera. Per gli altri, quelli residenti oltre i venti chilometri, queste regole non sono mai state prese in considerazione. All’Italia, di contro, interessava ristabilire la parità di trattamento tra i suoi contribuenti. Obiettivi sulla carta raggiunti, visto che dalla futura entrata in vigore dell’accordo ognuna delle parti in causa otterrà quanto desiderato: il Ticino più gettito (a regime, decine di milioni di franchi in più l’anno), l’Italia ritroverà la sovranità fiscale su tutti i suoi contribuenti, compresi i frontalieri, e la Svizzera, intensa come Confederazione, ristabilirà un dialogo diplomatico sereno e costruttivo con uno dei suoi principali partner commerciali. Concetti, questi ultimi, ribaditi pragmaticamente anche dal Consigliere federale Ueli Maurer durante il dibattito di ratifica al Consiglio degli Stati rispondendo a Marco Chiesa, presidente del suo partito il quale chiedeva – unico in tutto l’emiciclo – che l’accordo con l’Italia fosse sospeso*. L’iter proseguirà al Nazionale e un processo analogo è in corso al parlamento di Roma. Chiesa lamentava l’assenza del libero accesso al mercato italiano per gli operatori finanziari svizzeri e il mantenimento da parte di Roma della Svizzera in una lista nera. La proposta di sospensione del democentrista ha trovato il sostegno solo dei senatori del suo partito* (34 a 7 e due astenuti). Il che è significativo del peso politico a Berna di alcune – velleitarie – istanze ticinesi.
A dir la verità le speranze della piazza finanziaria si aggrappavano a una vaga promessa inserita nella ‘road map’ italo-svizzera che ha preceduto il negoziato sulla fiscalità dei frontalieri. Si trattava però di un documento di buona volontà non vincolante diplomaticamente. Berna lo sapeva, il Ticino non se n’è ancora reso conto.
*) NdA. Questo commento è stato modificato in quanto in una precedente versione c’erano delle imprecisioni: Marco Chiesa ha chiesto la sospensione della ratifica e non la bocciatura dell’accordo. Sospensione respinta sì, ma appoggiata dal gruppo Udc agli Stati (34 a 7 e due astenuti).