Tenuto conto di quanto poco sia stato fatto dopo gli Accordi di Parigi, è inevitabile il pessimismo che circonda il dopo ‘Glasgow Climate Pact’
Dal ‘bla bla bla’ siamo passati al ‘bla bla’. Questo sembra l’esito della Cop26 di Glasgow, l’iper-conferenza climatica di Glasgow, da più parti definita, soprattutto dal mondo scientifico, ‘dell’ultima spiaggia’. Accordo, ma al ribasso. Quindi un solo ‘bla’ in meno. Dovendo riassumere: viene mantenuto l’obiettivo di tagliare le emissioni di quasi il 50% entro il decennio per rispettare l’impegno di mantenere l’aumento del riscaldamento a 1,5 gradi e arrivare allo zero netto per fine secolo; gli oltre duecento Stati firmatari sono chiamati a presentare nuovi e concreti piani entro la fine del 2022 ma senza che vi sia un mandato vincolante né eventuali sanzioni per chi non rispettasse l’intesa finale; si cita espressamente la necessità di tener conto delle ‘differenti circostanze nazionali’, il che lascia buoni margini di manovra ai riottosi per trovare pretesti e rallentare l’azione; non viene integrato il fondo speciale per compensazioni sui danni che nella transizione subirebbero soprattutto i paesi poveri, ai quali erano già stati promessi cento miliardi di dollari non pervenuti; e per il carbone, nota più dolente delle conclusioni del vertice, India e Cina ottengono di passare dall’idea della progressiva eliminazione del suo utilizzo (phase out) alla semplice riduzione (phase down).
Tenuto conto di quanto poco sia stato concretamente fatto dopo gli Accordi di Parigi, è inevitabile il pessimismo che circonda anche le prospettive concrete di questo ‘Glasgow Climate Pact’. Così va, anzi non va, la transizione green. Per la quale, in verità, ancora ci si interroga su chi dovrà pagare l’inevitabile conto, assai salato, della fase iniziale, prima di approdare agli esuberanti benefici economici (più innovazione, più dinamismo, più crescita, più posti di lavoro) pronosticati con perentorietà ancora di recente dal premio Nobel per l’economia Jospeh Stiglitz.
In effetti, su chi dovrebbe pesare maggiormente questo passaggio? Rimane il quesito centrale, che ha già fatto registrare la reazione di consumatori poco disposti a sacrifici considerati eccessivi e a innovazioni (tipo le auto elettriche) di cui finora si registrano soprattutto i limiti tecnici e gli alti prezzi: dunque, un’opinione pubblica fors’anche sensibile al miglioramento ambientale intuisce che per il momento il rischio della fattura ambientale ricadrebbe soprattutto sulle spalle del ceto medio o medio basso; le industrie esitano per il timore di maggiori spese e di fenomeni concorrenziali insostenibili (lo hanno ribadito in un documento congiunto le associazioni padronali di Francia, Germania, Italia); mentre gli Stati (le cui finanze sono già stressate dagli esborsi per fronteggiare le spese causate dalla pandemia) fanno fatica a varare incentivi mirati, indispensabili a cittadini ed economia per imboccare la strada della transizione ecologica.
In realtà, le risorse dovrebbero essere prelevate là dove gli alti profitti non mancano: quelli dell’alta finanza, che quotidianamente registra transazioni miliardarie da cui però sgocciola poco o nulla sull’economia reale, e anche sull’economia pubblica causa l’irrisoria o inesistente tassazione. Ma sul piano ideologico si tratterebbe di un cambiamento di paradigma radicale. Oggi apparentemente impensabile.