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Terra mia, colpa tua

Alla Cop26 di Glasgow sul clima si va in ordine sparso, con accordi e promesse dai tempi biblici. E nessuna vera azione concreta a breve termine

Il ghiacciaio del Perito Moreno, in Argentina
(Keystone)
3 novembre 2021
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L’ottava Legge di Finagle, slogan teoricamente perfetto per la Conferenza sul Clima di Glasgow, dice: “Il lavoro di gruppo è fondamentale. Ti permette sempre di dare la colpa a qualcun altro”. Da qualche tempo a questa parte quelli che governano il mondo lo chiamano “multilateralismo”, che riempie la bocca come certi buffet diplomatici, ma come certi buffet diplomatici non è che sfami granché. Il succo sarebbe: certe decisioni, come il surriscaldamento globale, le prendiamo tutti assieme, per il bene comune. Ok. Solo che il bene comune non esiste. O meglio, esisterebbe anche, ma non possiamo aspettarci che siano Paesi con storie e interessi completamente diversi a trovarne la sintesi.

Gli Stati Uniti (che hanno inquinato finora quasi quanto tutti gli altri messi assieme) dicono che ridurranno le emissioni di metano entro il 2030, la Cina quelle di carbone entro il 2060, il minuscolo Vaticano e l’enorme India le azzereranno addirittura tutte quante, ma – rispettivamente – dal 2050 e 2070. Promesse affidate a calendari di un mondo talmente diverso da non essere nemmeno immaginabile. Per dire, al 2050 mancano 29 anni: ventinove anni fa nelle nostre case c’erano i videoregistratori, ma non c’era internet, sviluppavamo i rullini dal fotografo anziché inondare il web con le nostre colazioni e quasi nessuno aveva un telefono portatile, che – tra l’altro – pesava parecchio, più o meno i noiosissimi discorsi dei leader sul palco di Glasgow.


Narendra Modi e Boris Johnson (Keystone)

Nel 2060 sarà passato da Tienanmen quasi quanto oggi dalla Lunga Marcia di Mao; nel 2070 l’attuale premier indiano Narendra Modi avrebbe gli stessi anni di una divinità induista, mentre nel frattempo in Vaticano avranno dovuto industriarsi sul come fare le fumate del Conclave a emissioni zero. Ma Biden promette risultati concreti da qui al 2030, che sembra dietro l’angolo. Non lo è: in mezzo ci sono due elezioni presidenziali americane, abbastanza da fare un giro larghissimo, come dal primo Obama a Trump. Biden, additato per il suo pisolino in mondovisione durante le sessioni di lavoro, tra poco compirà 79 anni: e non solo nel 2030 potrebbe essere già morto, ma stando alle statistiche sull’aspettativa di vita negli Stati Uniti (78,2 anni per i maschi) dovrebbe esserlo da qualche mese.

Questo per dire che magari far decidere un futuro così lontano a uomini con prospettive (e spesso visioni) dagli orizzonti più limitati è il primo degli errori, di sicuro non l’unico. Perché non è solo una questione di età legata all’eterno dilemma vecchiaia-giovinezza, esperienza-novità. Sarebbe bello – o perlomeno giusto – avere dei leader che possano rispondere delle loro azioni tra 9, 19 o 40 anni. Biden e i suoi pari dovrebbero prendere impegni a breve scadenza, anche meno reboanti di un “emissioni zero”, ma concreti, in modo che possano essere verificabili se non oggi, almeno domani. Non fra trent’anni. Ad aggiungere al macabro un tocco tragicomico c’è questa tendenza molto poco multilateralista a dire “la cosa più importante è il lavoro di squadra. Quindi facciamo tutti quello che vi dico io”. Anche lo sbandierato accordo raggiunto sulla deforestazione ha tempi dilatati, cavilli da azzeccagarbugli e soci (Bolsonaro in primis) la cui firma pare scritta con l’inchiostro simpatico, quello che scompare come pezzi di Amazzonia.


Joe Biden alla Conferenza sul Clima di Glasgow (Keystone)

La verità è che agire da soli e responsabilmente, a volte, può attivare tentativi di emulazione e circoli virtuosi che il lavoro di gruppo ostacola, proprio per questa sua forza che è anche la sua debolezza: se si blocca un ingranaggio, si blocca tutto. Ed è colpa di tutti e di nessuno. A quel punto anche il 2070 diventa un obiettivo accettabile, solo che nel frattempo i Biden del futuro sposteranno il tutto al 2100 e così via. Pessimismo? Forse. Non immotivato, visti i fallimenti delle precedenti Conferenze sul Clima. Ma c’è anche un’altra legge di Finagle, la quarta: “Una volta che si è combinato un guaio, qualsiasi intervento teso a migliorare la situazione non farà altro che peggiorarla”.