Le lacrime di Leo Messi hanno commosso e, allo stesso tempo, fatto sorridere. Che bel gesto sarebbe stato se fosse rimansto un anno in più a titolo gratuito
Lionel Messi se n’è andato. Ha lasciato Barcellona a capo chino, dopo aver inzuppato di lacrime i fazzolettini appositamente preparati per lui dall’occulto regista della conferenza stampa di addio. Una scena (o sceneggiata?) che ha commosso molti, in particolare i tifosi di un Barça privato della stella più luminosa proprio in uno dei momenti più bui della sua storia. Ma ha fatto sorridere – se non proprio ridere a squarciagola – altrettanti amanti del calcio, ai quali le lacrime della Pulce sono parse fuori posto quanto un eschimese all’equatore. Per carità, l’idea che Messi abbia pianto per davvero e che la commozione espressa sia stata sincera, sgorgata dal più profondo del cuore, è più che legittima: così come la possibilità che l’addio mediatico sia stato un tantino pompato a favore di telecamere. D’altra parte, le pene d’amore (professionale) di colui che ha segnato il primo ventennio calcistico del nuovo secolo, sono destinate a svanire in fretta. Si è soliti dire che il tempo lenisce le ferite, stavolta l’unguento miracoloso si chiama Psg con il faraonico contratto pronto per la firma.
Lungi da noi l’idea di fare i conti in tasca a Messi, ma a questo punto occorrerebbe mettersi d’accordo su un indispensabile punto di partenza per poter ragionare su una tendenza che non coinvolge soltanto il 10 ex Barcellona, ma che sta sempre più diventando la normalità (vedi caso Donnarumma). Il calcio è uno sport o un business? Un quesito per il quale negli Stati Uniti hanno trovato una risposta, senza falsi pudori: lo sport è in primo luogo un business, per le società come per i giocatori. Ognuno deve badare al proprio tornaconto e lo scopo principale è di strappare contratti faraonici a chiunque sia disposto a pagare. E, allo stesso modo, se un atleta non risulta sufficientemente monetizzabile, il club lo mette alla porta e tante grazie.
Nella vecchia Europa, al contrario, si vorrebbe che il calcio non perdesse quel pizzico di romanticismo rimastogli attaccato addosso: il dio denaro può comandare, ma lo deve fare con una sorta di etica che tenga in considerazione la storia ultracentenaria dei club e dei loro tifosi. Non tutto, insomma, è lecito e consentito. Ed è proprio qui che casca l’asino e si scopre la foglia di fico di giocatori sempre più in balia di procuratori avidi di commissioni ultra milionarie che il bene dei club (e spesso del ragazzo) lo fanno solo a parole. Leo Messi, il cui contratto scade ogni anno al 30 giugno, aveva compiuto un bel gesto accettando di dimezzarsi lo stipendio pur di venire incontro a una società sull’orlo della crisi finanziaria. Ma allora, fatto 30 perché non si poteva fare 31? Il Barcellona deve molto all’argentino, ma lui deve molto di più al club catalano, quel club che nel 2000 aveva riposto la fiducia in uno scricciolo di 13 anni bisognoso di una costosa cura ormonale in grado di farlo crescere. Se oggi Messi è quello che è, lo deve al suo immenso talento, ma soprattutto a un Barcellona capace di mostrare un coraggio e una lungimiranza che nessun altra società aveva avuto. Adesso i blaugrana si trovano, se non proprio sull’orlo del fallimento, almeno su quello del baratro finanziario, con debiti che superano il miliardo di euro: un buco nero che li ha costretti a lasciar partire la loro stella. Ma allora, se davvero Messi non era pronto ad abbandonare Barcellona, se quella era la sua casa e la sua vita, perché non compiere il gesto più nobile di tutti e accettare di rimanere ancora un anno in Catalogna con il simbolico stipendio di un euro? Le sue finanze personali non ne avrebbero risentito: il suo ultimo stipendio annuo al Camp Nou ammontava a circa 43 milioni, ai quali si devono aggiungere 30 milioni di sponsorizzazioni che sarebbero comunque rimaste tali anche nel caso in cui avesse deciso di giocare gratis (anzi, forse sarebbero addirittura aumentate). Sarebbe stato un gesto di riconoscenza verso un club che gli ha permesso di diventare un quasi miliardario. E ne avrebbe altresì giovato la sua immagine personale di giocatore scorbutico, ormai incapace di sorridere anche quando segna. Purtroppo, nel calcio la riconoscenza è merce sconosciuta.