Grillo contro Conte non è solo uno scontro interno al movimento M5S, ma un modo opposto e inconciliabile di vedere i rapporti, la politica e il mondo
Giuseppe Conte dice che Beppe Grillo “ha deciso di fare il padre padrone” della sua creatura: il Movimento 5 Stelle. E ha ragione. Il problema è che non l’ha deciso ora, non ha mai smesso di pensarlo fin da principio.
Beppe Grillo dice che Giuseppe Conte è un leader “senza visione e senza capacità manageriali”. E ha ragione, perché uno con un minimo di visione alla teoria del padre padrone ci sarebbe arrivato anni fa.
Sulle capacità manageriali possiamo anche discuterne (certo, per dirne una, il Recovery Fund gliel’ha riscritto tutto Mario Draghi). Ma chi gli ha dato il via libera per fare il primo ministro in due governi diversi? Grillo. Ovviamente. Lo stesso che, appena quattro mesi fa, gli ha affidato la ricostruzione dei Cinquestelle. La creatura aliena che - per gerarchie, opportunismo politico, litigiosità e trame nelle segrete stanze - ricorda tanto un partito come gli altri, ma si autoproclama movimento. E tra poco potrebbe essere niente.
Giuseppe Conte con il suo successore Mario Draghi (Keystone)
Duellano a distanza, uno via blog (titolo, triviale, “Una bozza e via”), l’altro a mezzo stampa e fedelissimi, come una di quelle coppie stremate che litigano per procura. Grillo, re dei “vaffa” e della parolaccia, comico sublime che a un certo punto ha deciso - come molti - di fare qualcosa che gli riusciva peggio, non ama le mezze misure. Conte, viceversa, è la mezza misura: né carne, né pesce. Di più: sia carne che pesce. Talmente avvezzo al compromesso da essere portata, cameriere e anche chef all’occorrenza, in grado di sfornare piatti con ingredienti impossibili: M5S con la Lega, per fare un esempio. E poi col Pd, per farne un altro.
Un uomo del dialogo, che non alza la voce e che ci tiene a essere benvoluto da tutti, un avvocato capace di trovare ogni cavillo pur di non andare in battaglia. L’opposto di Grillo, che è nato con l’elmetto e passa la vita in trincea, sin da quando mitragliava a petto in fuori i politici sugli schermi di mamma Rai, finendo silurato, esiliato. Fa le sue battaglie, giuste o sbagliate che siano, e ne paga il prezzo. Conte sembra invece avere un tariffario per evitarle. Ci ha provato con uno Statuto che già dal nome suona di antico, pergamene, penne d’oca e ceralacca. Il più famoso, almeno in Italia, è lo Statuto Albertino del 1848, il predecessore della Costituzione repubblicana. Grillo lo ha addirittura definito roba “del Seicento”. Insomma, una cosa barocca, e il Barocco, con i suoi pomposi ghirigori e la sua teatralità, è il diavolo per uno che vuole sfrecciare a tutta velocità sul web con la democrazia diretta (da lui, e poi votata dagli altri).
Grillo con Pippo Baudo durante una delle sue intemerate in Rai (Rai)
Per contrastare questo Statuto che gli sa di muffa, Grillo vuole resuscitare la piattaforma Rousseau, appena ghigliottinata. Dice che serve il voto degli iscritti, ma ora i dati li ha in mano Vito Crimi, uno dei pesi massimi del movimento più vicini a Conte, che quel voto non lo vuole. E che non vuole il limite di due mandati, vessillo ancora sventolato in casa Grillo, ma riposto dagli ex rivoluzionari M5S una volta scoperte le comodità di certe poltrone.
L’ex premier potrebbe fondare un nuovo partito, facendo implodere tutto. Ma è una mossa senza certezze. E lui, oltre a darle, sembra un uomo che ha bisogno di averle. Ricucire? Chissà. Ma prima di Grillo, comici italiani catapultati indietro nel tempo per poi fallire ce ne sono stati già due, Benigni e Troisi. Impantanati nel Medioevo degli Statuti, ne sono rimasti prigionieri.
Non ci resta che piangere. E non è solo il titolo del film.
Benigni e Troisi in "Non ci resta che piangere"