Dal 1886 al 2021 (in verità anche prima) ritroviamo sempre lo stesso soggetto storico in lotta per vedere riconosciuti i propri diritti
Possiamo dire che quella di sabato sarà la festa dei lavoratori ma anche dei telelavoratori, di tutti coloro che in Svizzera sono “obbligati” a lavorare da casa. Questa misura, ricordiamolo, è stata decisa dal Consiglio federale per proteggere dal rischio di contagio da coronavirus una parte della popolazione attiva. Quella che, appunto, può “ragionevolmente” svolgere la propria attività a distanza.
La celebrazione del primo maggio riguarda anche, e soprattutto, le cosiddette lavoratrici essenziali: infermiere, badanti, cassiere di supermercato. Spesso sottopagate, spesso dimenticate. Tutte quelle categorie che abbiamo scoperto fondamentali grazie alla pandemia. Persone, donne perlopiù, per le quali gli applausi non bastano. Un discorso, quello del precariato, che tocca diversi settori dell’economia, anche i più dinamici (all'estero ci sono gli schiavi dell’algoritmo di Amazon, da noi quelli del furgone della Dpd ), e che pure in Ticino desta sempre più preoccupazione.
Ma torniamo un passo indietro. Perché la ricorrenza il primo maggio? I libri insegnano che nel 1886 ci fu un grande sciopero a Chicago, iniziato proprio in questa data. Lo scopo dei manifestanti era quello di ottenere la giornata lavorativa di otto ore. Allora la giornata di lavoro poteva arrivare a dodici, anche a quattordici ore. Durante le manifestazioni la polizia sparò sulla folla, uccidendo due persone. Seguirono altre proteste che culminarono nella manifestazione di Haymarket, durante la quale morirono altre persone – sia manifestanti che agenti – a causa di una bomba. Gli organizzatori della manifestazione del primo maggio furono arrestati e processati. Sette di loro furono condannati a morte. Più tardi due condanne furono trasformate in ergastoli dal governatore dell’Illinois. Mentre un condannato a morte si uccise in prigione il giorno prima dell’esecuzione. Altri quattro furono uccisi. Li si conosce come i ‘martiri di Chicago’. Nel 1890 la Seconda internazionale socialista decise di promuovere in tutto il mondo la festa dei lavoratori in loro memoria.
Centotrentacinque anni dopo: chi è in grado di dire quanto dura una delle nostre giornate di telelavoro? “Rispondo veloce a una telefonata e arrivo”, dice la moglie al marito che ha appena finito di preparare cena e che ha già messo i bambini a tavola. Qualcuno ha mai assistito a una scena del genere? Chiaro che il lavoro a distanza comporta dei vantaggi. Una modalità che da un lato è sì una tutela, ma che dall’altro ha come effetto collaterale quello di eliminare il confine tra lavoro e riposo. E che può inoltre determinare una sorta di ‘isolamento digitale’ nelle persone che lo svolgono.
Ciò che diventa interessante però, alla vigilia di una nuova ricorrenza, è provare a individuare quale può essere il fil rouge che va dai ‘martiri di Chicago’ ai lavoratori essenziali e ai telelavoratori del mondo in pandemia.
Dal 1886 al 2021 (in verità anche prima) ritroviamo sempre lo stesso soggetto in lotta per vedere riconosciuti i propri diritti. Una classe sociale (sarà marxismo, ma non vi è termine più appropriato) costretta a scontrarsi con un’altra, e anche con le proprie contraddizioni.
Una dinamica in costante evoluzione (fatta da importanti conquiste e clamorose sconfitte per il movimento dei lavoratori) che funge – dicono quelli che ne sanno – da motore della storia.