Lo chiede De Gregori, per la musica e i musicisti. Intanto il Festival parte, perché 'il servizio pubblico non è solo informare, ma anche quote di leggerezza'.
Quando uno credeva di averle viste tutte – il tizio che minaccia di buttarsi dalla galleria e Pippo Baudo lo salva, la spallina di Patsy Kensit, Peter Gabriel che atterra di schiena sull’amplificatore e rischia la paralisi, e Supergiovane che plana sulla platea dell’Ariston nell’ultimo volo di Elio e le Storie Tese – eccoti l’Ariston vuoto. “Il Festival, ci si sente di dire, è in lutto”. Così apriva il Tg della Rai del 28 gennaio 1967 Sergio Zavoli, commentando la morte di Luigi Tenco. “Ciò non gl’impedirà (al Festival, ndr), tuttavia, di portare avanti fino al traguardo di sabato una macchina che per gli interessi che la muovono, evidentemente non può fermarsi”. Un concetto che è aleggiato anche nei giorni che ci hanno portati all’Amadeus Bis, il Settantunesimo (anzi, «il Settantesimo più uno», come lo chiama lui), al Festival di Sanremo che inizia questa sera – sempre che Matteo Renzi sia d’accordo – e che rimarrà nella storia ancor prima che si sia esibita Orietta Berti. Un concetto valido per la prima parte, il lutto, meno per la seconda, la macchina che non può fermarsi e che non è, soltanto, interessi.
Fatta eccezione per alcune eminenze grigie del giornalismo accolte in loco, in una rinnovata e ridotta sala stampa di meno di cinquanta anime cartacee allestita al Casinò, in un trionfo di plexiglas e mascherine a far pendant coi fiori, quest’anno l’inviato a Sanremo non si muove da casa sua. Mamma Rai, che i suoi figli non li abbandona mai (c’è la rima, d’altra parte son giorni di canzoni), non gli fa mancare nulla; gli fa pure assegnare da casa il Premio della Critica come in una musicale Piattaforma Rousseau; e lo accredita a distanza alle conferenze stampa nella forma rettangolare del collegamento in Zoom. Conferenze durante le quali tutti (o almeno chi ci tiene) possono mostrare le scaffalature alla virologo, con dentro libri, vinili e cd, che tanto fa eruditi melodici. Questo si può fare, non di più. Un anno fa, sul grande schermo della sala del Roof dell'Ariston, casa del giornalista durante il Festival, sfilavano le immagini di Wuhan, davanti alle facce di fronte con sopra scritto “Ma dobbiamo preoccuparci?” e “Ma tanto la Cina è lontana”.
Un pro, in tutto questo: il lungo tavolo che al Roof si riempie via via di montagne di comunicati stampa spelando colline, quest’anno farà economia di carta. I contro, molti: addio alle foto coi cartonati dei cantanti in dimensione così reale che sembrano veri; addio ai Luciani Pavarotti, alle Nille Pizzi, alle Liz Taylors, ai Renati Zeri e agli Al Bani, sosia che girano incustoditi per via Matteotti e limitrofe a far colore e nostalgie kitsch; addio ai musicisti di strada con l’occasione di piazzare un cd (ora chiavetta Usb) al discografico di turno col cartellino al collo e una mezza pizza di traverso, nella città che non dorme mai. Ancora non si sa se Mina canterà una nuova sigla della Tim (l’anno scorso fu “Scivolascivolascivolascivola”, quest’anno chissà), ma Sanremo ci sarà. Per la gioia di commentare il cast («Amadeus ha messo insieme Willie Peyote e Orietta Berti, come se in un governo ci fossero la Lega e il Pd», dice Fiorello), per la curiosità del nuovo che avanza e del vecchio che forse regge, per le professionalità coinvolte, dall’autore del testo a chi infila cavi e schiaccia pulsanti, passando per quella strana creatura che è l’artista. Poi, se proprio il Festival non piace, ci si può rifugiare nelle sofferenze di Maria Teresa Ruta, nei problemi familiari di Walter Zenga (l’uscita in Italia-Argentina del ’90, quello sì che è un problema Walter), in Barbara D’Urso nuova bandiera della sinistra, quella che “hai portato la voce della politica alle persone. Ce n’è bisogno!”, ma non l’ha scritto Toninelli. E c’è sempre Ridge che ha appena chiesto il divorzio a Brooke. Di fronte a tutta questa offerta, che male potrà mai fare un altro Festival? Noi, comunque, alla tv del dolore preferiamo Laura Pausini.
Immutato, immutabile, non ancora in mutande (ridotto nel budget ma non troppo), il Festival di Sanremo si fa affinché la Rai possa pagare le sue produzioni – l’intero palinsesto ha una certa dipendenza dalla manifestazione – e perché «il servizio pubblico non deve solo informare, ma consegnare anche una quota di leggerezza, stavolta, per quanto possibile, misurata e in una costruzione non personalizzata dello show, ma con uno sguardo oggettivo sulla gente». È il direttore di rete che parla, è lo squillo di tromba; e a sinistra, quasi contemporaneamente, un altro squillo risponde: è Francesco De Gregori, che nel giorno Zero di Sanremo lancia la provocazione di un Ministero del divertimento che si occupi di musica e musicisti. Perché il divertimento, qualcuno a volte se lo dimentica, è una cosa seria.