Il Governo opta prudentemente per una strategia di uscita dal lockdown fatta di piccoli passi. Una scelta ragionevole, viste le numerose incognite.
Come si vede Alain Berset tra un anno? «Su una terrazza, con una birra». E Guy Parmelin? «Lo stesso, ma con un bicchiere di vino bianco». Alle porte c’è però la primavera 2021, non quella del 2022. E allora i piedi restano ben piantati per terra: «Vorrei potervi dire che siamo alla fine del proverbiale tunnel, ma il tunnel è ancora molto lungo, anche se vediamo la luce al fondo» (il viticoltore presidente della Confederazione); la situazione resta «fragile» (il ‘ministro’ della sanità).
In effetti il momento è delicato. I dati sull’evoluzione della pandemia sono sì «buoni», ma – appunto – una rondine non fa primavera. Le nuove varianti del coronavirus continuano a diffondersi. Non si testa abbastanza. Il tracciamento dei contatti qua e là balbetta sempre. Fanno difetto informazioni affidabili sui luoghi di contagio. E la campagna vaccinale non avanza al ritmo sperato.
Ha fatto bene dunque il Consiglio federale a non pigiare sull’acceleratore. A optare – nonostante l’enorme pressione sulle sue spalle – per una riapertura cauta, mirata e graduale delle attività economiche e sociali messe in letargo quest’inverno, con un occhio di riguardo per i giovani. Ha fatto bene anche a dettare una cadenza ragionevole (un mese anziché le 2-3 settimane sperimentate finora, insufficienti per valutare al meglio l’effetto delle misure decise) ai passi previsti dal piano di uscita dal semi-confinamento. E a subordinare a tutta una serie di indicatori il via libera alla seconda fase della riapertura, dal primo aprile.
Levare subito o quasi tutte o buona parte delle restrizioni in vigore, come chiedono in particolare gli ambienti economici e l’Udc, sarebbe irresponsabile. Forse qualcosina in più si poteva concedere, quantomeno per quelle attività (come cinema e teatri) che non presentano eccessivi rischi di contagio e per le quali sono stati messi a punto rigorosi concetti di protezione. Ma al di là di possibili, auspicabili e puntuali correzioni di tiro, la rotta è quella giusta. La sicurezza viene prima della velocità.
Abbiamo già visto lo scorso anno cos’è successo quando si è voluto riaprire praticamente tutto allo stesso tempo e poi si è dormito sugli (apparenti) allori estivi. Ripetere quell’errore adesso sarebbe fatale: un effetto yo-yo, con una terza ondata di contagi e conseguenti nuove chiusure, sarebbe deleterio non solo sul piano epidemiologico, ma anche per l’economia e la società.
Lo scenario non è per nulla irrealistico. Alain Berset non ha nascosto che anche le prime, timide riaperture annunciate per il primo marzo (negozi, musei, impianti sportivi e per il tempo libero) comportano «un certo rischio». Un rischio «calcolato», che si potrà gestire – oltre che con le usuali regole di igiene e di comportamento – pure con adeguati piani di protezione, che però vanno applicati e fatti rispettare. Bisognerà poi testare più sistematicamente, ha ribadito Guy Parmelin. Anche perché non è affatto sicuro che tutti coloro che lo vorranno saranno vaccinati già entro l’estate.
Un’uscita lenta dal lockdown, però, va compensata con aiuti congrui e versati rapidamente. Ieri il Consiglio federale ha messo un’altra volta mano al portafoglio. Ma a contare non è solo l’entità del sostegno alle aziende e ai lavoratori in difficoltà. Adesso è più che mai urgente colmare le lacune esistenti e recuperare il ritardo accumulato, tra l’altro nell’accesso ai fondi per i casi di rigore e nella copertura integrale del salario in caso di disoccupazione parziale per le persone a basso reddito.