Negli Usa è in corso una discussione epocale sull'identità condivisa. Noi invece perdiamo tempo coi Moretti e straparliamo di "buonismo". Peccato
Come placche tettoniche, alcune distorsioni storiche accumulano energia per decenni e poi si riallineano di botto, nel tempo d’un terremoto. Gli americani sono maestri, in queste cose: fino a ieri i più dubitavano della gravità del razzismo, ora invece lo denunciano quasi tutti. Le manifestazioni vedono i bianchi addirittura in maggioranza accanto agli afroamericani e alle altre minoranze etniche. Uno strappo repentino, come quello visto sui diritti delle donne e degli omosessuali. Una di quelle cose che mi hanno sempre affascinato e spaventato degli Usa: quando vai a letto, non sai mai in che paese ti sveglierai il giorno dopo.
L’opposto capita in Europa: ogni cambiamento dev’essere esorcizzato dalla sfiducia, dal cinismo e da eterni processi alle intenzioni, liquidando le spinte riformiste come “isterismo” o “moda”. Certo, anche qui qualcuno – specie tra i più giovani – ha colto l’occasione per rimettere in discussione il razzismo e gli eccessi polizieschi. E per denunciare altre storture, dall’eredità del colonialismo alle discriminazioni sul lavoro, dal maltrattamento dei migranti a quel sordo timore per lo straniero che alligna in molti di noi, anche quando ce ne vergogniamo. Eppure il confronto europeo sul razzismo rischia di rimanere marginale, di andare sprecato. Forse perché siamo la periferia dell’impero, seduta sugli allori del Rinascimento e della Riforma, ma ormai troppo vecchia per leggere i segni dei tempi e “divinar responso”. Il messaggio di certi cambiamenti pare arrivato qui via nave e a cavallo, ormai usurato e distorto: altrimenti non si spiega perché, mentre altrove si parla di emarginazione sociale, giustizia negata e riparazioni, qui si litighi pretestuosamente sul nome dei Moretti.
Intanto molti pretendono di insegnare a chi protesta come farlo (il più sottovoce possibile, e via quei gomiti dalla tavola). Ci prova anche una parte della politica americana: ma è incredibile come oggi il suo discorso “law & order” stenti a fare proseliti. Tornando in Europa, perfino i monumenti abbattuti avrebbero potuto stimolare una discussione più articolata su memoria e identità condivisa. Niente da fare, al netto di qualche nobile eccezione – Ivo Silvestro e Roberto Antonini su laRegione, tra l’altro – e della geniale proposta di Banksy per Bristol: recuperare la statua divelta d’uno schiavista e rimetterla sul suo piedistallo, aggiungendo però al monumento le figure dei manifestanti che la trascinano a terra. Si potrebbe anche impacchettarle come faceva Christo, velando e rivelando allo stesso tempo.
Se però la discussione è spesso banalizzata, non è solo questione di distanze e periferie. Lo si deve anche a sciatteria e malafede. La sciatteria di chi non si preoccupa mai di contestualizzare i fenomeni, di spiegare ad esempio che Cristoforo Colombo non significa la stessa cosa per un genovese e per un nativo americano; che la bandiera della Confederazione sudista e il generale Lee – lo ricordava qualche giorno fa l’ineffabile Francesco Sottobosco – non rimandano solo a due ragazzi con la Dodge Charger che facevano gli ‘sgommi’ nei telefilm della nostra infanzia.
Poi c’è la malafede di chi punta a mistificare: quelli che sostengono – fregandosene dei numeri e delle cronache – che dalle nostre parti il razzismo non è un problema. Che addirittura incolpano gli afroamericani, ingigantendo senza alcun rigore statistico la loro violenza contro i bianchi (alcuni di costoro tirano da anni la volata a certi politici dalla repentina e brillante carriera, ma questo a quanto pare non è un problema). Quelli per i quali certe azioni iconoclaste puzzano subito di censura e di autoritarismo, quando sanno piuttosto di disperazione e del bisogno di essere ascoltati. I grandi vecchi che contestano la contestazione, con frasette e formule vuote: il “buonismo”, il “politicamente corretto”, il “pensiero unico”. Moretti e Via col vento, “razzismo nero” e “fascisti rossi”: tutto torna comodo, pur di fomentare l’indignazione. Resta da sperare che certe rigidità suonino sempre più obsolete e fuori posto; che davvero, come nel caso dell’ambiente e delle donne, le scosse degli ultimi tempi servano a demolire certe scorciatoie e le loro storture. Senza voler censurare nessuno, per carità: ma trovando parole e strumenti fatti per capirsi. E per capire, per quanto possibile, anche chi è diverso da noi.