Una risoluzione del Parlamento europeo equipara i crimini di Hitler e di Stalin. Il movente è politico, la scelta sbagliata
Non è “nefasta” né “inquietante” – come sbraita la sinistra più nostalgica – la risoluzione del Parlamento europeo che equipara nazismo e stalinismo a ottant’anni dall’invasione della Polonia: certe parole calzano meglio a chi di quei totalitarismi vuole negare i crimini; e l’Unione europea non cerca di farlo, anzi ne ribadisce una ferma condanna. Un altro aggettivo inquadra meglio il documento: opportunista.
Opportunista è postdatare la guerra al patto di non aggressione fra Germania e Unione Sovietica (agosto 1939), dipingendo Berlino e Mosca come corresponsabili del conflitto.
Una scelta che accontenta gli Orbán e i Kaczynski di turno, per i quali il revanscismo antirusso serve a fomentare il nazionalismo. Ma l’espansione di Hitler iniziò prima del patto Molotov-Ribbentrop, con l’annessione dell’Austria e dei Sudeti. Nel 1938 furono piuttosto le democrazie occidentali – in testa l’Inghilterra di Neville Chamberlain – ad assecondarne gli appetiti con l’Accordo di Monaco, che di fatto permise a Hitler di mangiarsi un bel pezzo di Cecoslovacchia.
Questo non toglie nulla alle colpe di Stalin: subito dopo quel patto, “le dita grasse come vermi” del “montanaro caucasico” – così le descriveva l’intrepido poeta Osip Mandel’stam – avrebbero afferrato la Polonia, la Finlandia e le regioni baltiche, esportando il terrore già imposto in Urss. Ma fu la Germania nazista a iniziare la guerra, fu la Wehrmacht a invadere la Russia due anni dopo, e fu invece l’Unione Sovietica a contrastarla e a pagare il tributo più alto per la sconfitta del nazismo: fra i 20 e i 27 milioni di morti.
Opportunista, insomma, è la scelta di riscrivere il passato a colpi di equivalenze storiche, per accomodare Est e Ovest sotto a una comune “memoria europea”. Memoria posticcia, dato che non cancella le divisioni e la diffidenza reciproca alimentate da cinquant’anni di Guerra fredda.
Memoria selettiva, anche, perché a Ovest permette di dimenticare il ‘tradimento’ dei Paesi consegnati ai rigori del Patto di Varsavia; e ai ducetti di Visegrad consente di alimentare una vulgata nella quale i rispettivi popoli sono sempre e solo vittime di nemici esterni. Ogni collaborazionismo è coperto da un omissis, tanto che in Polonia basta nominare il pogrom di Jedwabne per rischiare fino a tre anni di carcere. E la caricatura del nemico è screziata di xenofobia e antisemitismo, come sa chi abbia visto il vergognoso ‘Museo del terrore’ a Budapest.
Ma qui il passato sconfina nel presente, la ricerca storica nella strumentalizzazione politica.
Ed è appunto in chiave politica, non storica, che si devono leggere gli intenti di una risoluzione in cui l’ambiguità della guerra è ridotta a una patacca hollywoodiana in stile ‘La vita è bella’ (dove a liberare Auschwitz erano i carri armati americani). Quando il documento condanna l’invasione sovietica dei Paesi Baltici, della Romania e della Finlandia; quando ribadisce la promozione della democrazia e dei diritti umani “sia all’interno che all’esterno del suo territorio”; quando invita “la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato”, l’indirizzo sulla filigrana del messaggio è chiaro: Cremlino, alla cortese attenzione di Vladimir Putin. Un messaggio quasi inevitabile – e anche auspicabile – al nuovo zarismo russo, specie all’inizio di una legislatura che dovrà rimettere in piedi il progetto unitario.
Peccato che si sia scelto di riavviare l’europeismo mettendo le mani nei pistoni della memoria, col paradosso che questo documento finirà dimenticato, come lo saranno le volenterose “giornate internazionali” degli “eroi” e delle “vittime” che si aggiungono a un’agenda ormai colma.
Opportunismo, appunto: invece di dare in pasto ai nazionalismi dell’Est una storia fasulla a buon mercato, sarebbe stato auspicabile un impegno concreto ed esplicito rispetto alle nuove scorribande dell’orso russo, arrivato fino all’Ucraina. Solo una concreta percezione di sicurezza può strappare il consenso popolare all’autoritarismo, e medicare quella sindrome dell’abbandono vissuta non solo dalla Mitteleuropa degli anni ’40, ma anche dalla Budapest del ’56 e dalla Praga del ’68. Ma l’Europa non sembra pronta a uno slancio comune nella politica estera e di difesa, complice anche l’abitudine di vivacchiare fra parassitismo e sudditanza sotto l’ombrello americano, sempre più logoro. Ecco allora che non riuscendo a cambiare il presente o a credere nel futuro, l’Ue si limita ad armeggiare col passato: un altro sintomo della sua preoccupante debolezza.