Commento

La notte in cui James Brown salvò Boston

Ventiquattro ore dopo la morte di Martin Luther King, l'America in fiamme nelle mani del Re del Soul (storia di 60mila dollari spesi bene)

Godfather of Soul (of Funk, and more)
6 aprile 2018
|

Martin Luther King ricevette il suo dottorato a Boston. Sposò sua moglie a Boston. Nessun posto in America, il giorno dopo la sua uccisione, poteva essere più caldo di quello. Cosa fare del concerto di James Brown in programma al ‘Garden’ il 5 di aprile del 1968, in una città già in fiamme? Che fare di quel pubblico ‘black and proud’ in viaggio dal (e verso il) Massachusetts per assistere allo show del re del soul, paladino dei diritti civili dei neri, bandiera dell’anti-apartheid, ex lustrascarpe partito dai campi di cotone per arrivare, qualche anno dopo quella sera, a consigliare di persona a Richard Nixon di darsi una mossa? La storia dice che James Brown salvò Boston dalla guerra civile, in quell’aprile del ’68. L’idea si deve a un membro afro-americano del Consiglio comunale della città, tale Tom Atkins, un nome e un cognome che per i britannici corrispondo al ‘soldato semplice’, così come John Doe è per gli americani il ‘signor nessuno’. Fu lui a suggerire al sindaco dell’epoca, Kevin H. White, che una diretta televisiva nazionale del concerto del re del soul al ‘Garden’ sarebbe servita a placare gli animi di un popolo privato soltanto poche ore prima della sua guida spirituale, colpita a morte su di un terrazzo del Lorraine Motel di Memphis. Più gente davanti alla tv, meno nelle strade, questa l’idea di Atkins. Il racconto più dettagliato di quel concerto sta tutto nel documentario ‘The night James Brown saved Boston’ (La notte in cui James Brown salvò Boston), sintesi cinematografica di una escalation di eventi che hanno una curiosa diatriba mai risolta. Ovvero quanto prese The Godfather of soul per quella performance. Una volta appreso della disponibilità degli organizzatori a rimborsare chi aveva già acquistato il biglietto, per la concomitanza televisiva, la richiesta dell’artista alla città fu quantificata in 60mila dollari dell’epoca. Messa la cifra online, in un moderno convertitore monetario-spazio-temporale, ne esce più o meno il cachet odierno dei Foo Fighters (circa 500mila dollari, stando alle voci di corridoio). Una volta trovato l’accordo, aperto da un commosso saluto al reverendo King con il re da solo sulla scena in abiti civili, il dramma musical-politico andato in onda dal Garden ebbe il suo culmine in un’invasione di palco senza conseguenze, con il cantante a mediare eroicamente tra polizia e manifestanti. “James Brown non ha fermato la rivolta a Boston. Ha evitato che accadesse”, dice il personal manager Charles Bobbit nel documentario.

Dai ghetti della Carolina del Sud, il re del soul, del funk e di tutto il resto se n’era uscito con un suo personale groove, una cosa che tutti suonano e sembrano un uomo solo, una creatura del ritmo con almeno una ventina di arti che eseguono le idee di una sola testa. Quel groove, James Joseph Brown, se l’era creato in base a regole non scritte che sovvertivano la sacralità del metronomo, imponendo ai musicisti cambi di velocità improponibili (se analizzati a tavolino), anticipi antiestetici (per l’orecchio accademico dell’epoca) e splendide dinamiche schizofreniche. Insomma, non c’era niente a tempo, ma tutto era a tempo. Anche il rapporto del re con il denaro era ritmico, in perfetto sincrono con il suo indice. Lo raccontano alcuni suoi turnisti in un altro documentario, ‘Soul Survivor’ (Sopravvissuto del soul), nel quale i sopravvissuti sembrano più loro, i turnisti, che non il cantante. Se si guarda James Brown esibirsi sul palco, in effetti, non è difficile scorgere il suo dito puntato che pare un incoraggiamento a darci dentro, e invece è una calcolatrice che tassa gli errori di chi suona, rivolta indistintamente a strumentisti, coristi e coriste (moglie inclusa). Nessun pungolo artistico, nessuna condivisione ritmica, nessun compiacimento. A parte rari inviti al virtuoso di turno per un solo da eseguirsi in piena libertà, nulla di quanto succedeva sul palco poteva mai essere frutto d’improvvisazione. Perché anche l’improvvisazione era frutto di un piano già scritto, che come tale andava inteso in termini di ordine e non di indicazioni di massima. In nome di questa regola, il dito puntato di James Brown stava a significare la violazione del groove, e il cachet per la serata si riduceva di 5 dollari. Puntato una volta, 5 dollari. Puntato due volte, 10 dollari. Tre volte, 15. E così via. Qualcuno afferma di avere suonato gratis.
Tornando a Boston. Chiamatelo musicoterapia, chiamatelo ‘entertaining’, il groove di James Brown, costi quel che costi, salvò la città. A proposito di costi: “Di quei 60mila dollari – racconta il personal manager in ‘The night James Brown saved Boston’ – ne abbiamo ricevuti soltanto 10mila. Gli altri 50mila nessuno sa dire dove siano finiti”. Il sindaco, nello stesso film, sostiene che lui, quei 60mila, li aveva tirati fuori tutti fino all’ultimo centesimo. E che furono soldi ben spesi.