Nella lista dei grandi rientri nello sport si sono aggiunti Vonn e Hirscher. Cosa spinge un campione a riprovarci? Ce ne parla lo psicologo Giona Morinini
Ci sono quelli riusciti – Michael Phelps fece incetta di ori olimpici, George Foreman conquistò un secondo titolo nei pesi massimi a vent’anni di distanza dal primo, Michael Jordan vinse altri tre titoli Nba con i Chicago Bulls – e ci sono i ritorni un po’ meno trionfanti (un solo podio per Michael Schumacher, zero partite vinte per Bjorn Borg).
Lo sport, mondo di storie epiche e di altre più anonime in termini di trofei e medaglie, si è arricchito di pagine che aggiungono ulteriori capitoli a due narrazioni che parevano ormai concluse: il rientro alle competizioni di Lindsey Vonn e Marcel Hirscher. Con esiti diversi: un infortunio dopo poche settimane per lui, un 6° e un 4° posto come migliori risultati per lei.
Cosa può spingere chi ha già vinto tutto a tornare a rimettersi in gioco? Ne parliamo con Giona Morinini, psicologo dello sport.
Ogni storia è storia a sé. C’è però un tratto comune che si potrebbe trovare in ogni ritorno?
Credo ci siano due grandi categorie. Da un lato la competitività, il sentire di poter andare sempre al limite per migliorare le proprie competenze e prestazioni. Questa è un’enorme spinta motivazionale durante la carriera; che può essere in qualche modo alla base della decisione di riprendere un’attività ad alto livello. Chi torna, lo fa perché ha voglia di sperimentare ancora tale sensazione, di vedere dov’è la propria soglia e perché desidera condividere tutto ciò con le persone che ha attorno. Dall’altro lato c’è il quanto uno sportivo si identifichi completamente nella sua disciplina. Se un atleta lo fa completamente, allora gli è difficile stare senza lo sport che ha sempre praticato. E se si è unicamente uno sport, il rischio è di non riuscire a stare senza. È, questo, uno dei motivi per i quali talvolta per qualcuno è difficile ritirarsi e per cui è importante preparare il dopo carriera e di farlo già durante il proprio percorso sportivo. La prima motivazione è una spinta, diciamo così, più positiva e comunque stimolante perché si va a cercare qualcosa in più; mentre la seconda indica la sofferenza di avere qualcosa in meno, la fatica di capire chi si è senza quel qualcosa, cosa si può fare e come si sta; e quindi il bisogno di tornare dove si era.
Qualunque sportivo per arrivare ai massimi livelli fin da giovane dedica ogni aspetto della vita alla sua disciplina, compreso tanto della propria persona. Questo spiega il rischio di identificarsi unicamente attraverso lo sport?
Chi arriva a fare dello sport la sua professione, vive in funzione dello sport. Lui, ma anche chi gli sta attorno, mangia, dorme, va in vacanza in ottica della competizione che ci sarà. Questo diventa la parte principale che guida l’esistenza e siccome l’atleta fa tutto questo per performare, c’è una grande ricerca e soddisfazione nel vedere che si funziona bene e si vince.
C’è chi è mosso maggiormente da motivi ‘interni’, come il proprio appagamento; e chi lo fa per motivi ‘esterni’, come l’apprezzamento ricevuto dagli altri. L’aspetto importante, dopo ma anche durante la carriera, è quello di riuscire a vedere che comunque c’è anche altro. Che essere atleti è la priorità, ma è fondamentale ricordare che si è pure fratello, sorella, amico, appassionato di libri, bravo in cucina e via dicendo; al fine di avere un equilibrio più stabile anche quando ci sono i picchi, che siano successi o difficoltà. Molti atleti parlano di questo equilibrio come di un fattore che aiuta ad esempio la gestione dei grandi eventi. Cioè: se sono uno sciatore (ma vale per tutte le discipline) e lo sci è l’unica cosa nella quale mi sento rappresentato come persona, in una gara importante metto in gioco tutto me stesso e dunque in quel momento la paura può essere molto forte. Se invece sono uno sportivo che, una volta tornato a casa dalla competizione alla quale certo tengo molto, trovo altre cose che mi danno stabilità, riesco a relativizzare la portata dell’evento, riuscendo comunque a metterci tutto me stesso per raggiungere il mio obiettivo.
Come può un atleta non sentirsi rappresentato solo nel proprio sport, pur dovendo metterci tutto se stesso?
Penso che si riesca a farlo nei momenti in cui si apprezza una giornata in famiglia senza la competizione sentendone il beneficio; quando si riesce a chiamare i genitori o un amico e apprezzarne gli effetti positivi. Oltre all’ovvia importanza del contesto attorno all’atleta, famiglia o amici che siano, ciò che aiuta è proprio il rendersi conto di quanto giovamento si possa trarre da una passeggiata in montagna o dallo spegnere il cellulare per giocare a carte col vicino di casa; da cose così, che non tolgono bensì danno energia.
Non sono pochi i campioni, anche di enorme successo, andati in crisi una volta smesse le gare. E peraltro c’è chi paragona l’abbandono delle competizioni a una sorta di lutto. È così? Uno sportivo ‘muore’ due volte?
Per certi versi finire una carriera sportiva è simile all’andare in pensione, quando da un giorno all’altro si smette di andare in ufficio, in banca, sul cantiere. C’è tanta gente a cui piace il proprio lavoro, ma c’è altrettanta gente felice di andare in pensione, così da avere più tempo per sé. In ogni caso la routine cambia e questo può essere spiazzante. Un atleta che termina la carriera, oltre che con una quotidianità che cambia, deve confrontarsi con il venire meno delle molte sensazioni date dalla pratica dello sport (adrenalina, forte attivazione corporea) e con il fatto di smettere, più o meno rapidamente, di essere sotto le luci della ribalta mediatica. È un passaggio che può fare senza troppi contraccolpi se sa che a finire non è tutta la sua vita; che non è più uno sportivo di alto livello, ma continua a esistere in e con tutte le sue altre sfaccettature.
Questo è un momento che i non sportivi possono provare a comprendere essendo curiosi e comprensivi. E mi spiego. Quella dello sport d’élite è effettivamente una vita parecchio diversa dalle altre e dunque ci sta che, quando termina, ci sia un contraccolpo importante. Per capire cosa può succedere a chi ci passa, che non va però visto né trattato da vittima, si possono leggere biografie di ex campioni, guardare serie tv sul tema, informarsi insomma.
I rientri di Vonn e Hirscher hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro. Tra i moltissimi pareri che un po’ tutti ci si è sentiti in dovere di esprimere ce ne sono stati molti scettici: c’è chi si è limitato a storcere il naso, chi ha parlato addirittura di una scelta patetica. Il rientro alle competizioni di un grande campione è qualcosa di patetico?
No, non userei quel termine che peraltro è poco cortese nei confronti di chi fa una scelta in cui potrebbe avere tutto da perdere. C’è chi torna con la consapevolezza di avere ancora le qualità per rimettersi in gioco, per riportare lo sport in cima alle priorità e la voglia di tornare a fare una vita particolare, stravolgendo di nuovo la propria quotidianità. Mentre Marcel Hirscher ha avuto poche occasioni di dimostrare ciò che vale ancora, a causa del suo infortunio, Lindsey Vonn sta dimostrando di non sfigurare assolutamente e anzi di poter fare ancora molto bene. Inoltre il suo ritorno ha contribuito a dare una bella scossa all’interno della squadra statunitense.
Un po’ diversa potrebbe essere invece la situazione di chi rientra perché, una volta lasciata la propria disciplina, si è sentito perso e dunque pensa di non avere altra scelta per sentirsi qualcuno. Sono situazioni che possono suscitare dispiacere e tenerezza nei tifosi; non parlerei comunque di scelte patetiche.
I commenti su entrambi non sono però stati dello stesso tenore. Se Hirscher è stato riaccolto come la star che è o tutt’al più con curiosità, su Vonn non ci sono andati per il sottile perfino diversi ex campioni (Sonja Nef: “Non la credevo così stupida”). L’ex sciatore Marco Büchel ha parlato di considerazioni al limite del sessismo. C’è una differenza di lettura perché uno è uomo e l’altra donna?
Purtroppo sì e credo sia un retaggio del fatto che tradizionalmente lo sport è una cultura fin dall’inizio maschiocentrica. Per fortuna si sta andando oltre questa visione, con numerosi racconti e belle esperienze in cui uomini e donne sono entrambi abilissimi, con grandi qualità ed enorme potenziale. Sono però sfortunatamente ancora presenti frangenti in cui, forse anche senza troppo rendersene conto, si mette l’accento maggiormente su un punto di vista che parte dall’uomo.
La voglia di riprovare sensazioni forti, diceva. Non c’è il pericolo di non capire quando è giusto dire stop, quando appendere gli sci (o la racchetta o le scarpette da calcio) al chiodo?
L’adrenalina è una sostanza prodotta dal corpo. Quando ci si ferma dopo aver vissuto ad alta intensità per diverso tempo, la mancanza di questa sostanza si fa sentire. Il desiderio di ritrovare certe sensazioni può dunque essere alla base della volontà di ripresentarsi alle competizioni. La ricerca del proprio limite e delle scariche di adrenalina, tipica di chi fa agonismo così come di chi pratica sport estremi (bungee jumping, arrampicata...), è però spessissimo fatta in modo da non superare quei limiti. A noi che li guardiamo in tv o dal vivo possono sembrare dei pazzi, in realtà sono molto consapevoli di ciò che fanno.
Un campione che torna alle competizioni e poi non raggiunge più risultati di rilievo, può però deludere il tifoso. C’è il rischio di essere ricordati con l’ultima immagine un po’ ‘sfocata’ e non per l’insieme della carriera?
Ci sta che un tifoso sia dispiaciuto, se il dispiacere è pensare “era bello vederlo/a gareggiare in quel modo e questo mi manca”. Faccio più fatica a comprendere la delusione, perché sarebbe come pensare che l’atleta facesse qualcosa per addolorare o offendere i tifosi.
Da spettatori e sostenitori siamo tutti vincitori di Mondiali di sci o Slam di tennis e ‘gestori’ di carriere altrui, delle quali commentiamo vittorie, sconfitte, durata, momento scelto per lasciare le competizioni (troppo presto, troppo tardi). Ma per un atleta c’è un momento ‘giusto’ per lasciare?
Il momento giusto c’è per ognuno. Per tutti è diverso e dipende da numerosi fattori: da quanto l’atleta sente di poter ancora dare e ottenere ad alti livelli, dalla voglia di far parte ancora dei circuiti sebbene i risultati non siano più quelli di prima, dall’aspetto economico (importante soprattutto per chi non è sportivo di primissima fascia), dalla volontà di continuare a viaggiare, dal desiderio di normalità e via dicendo. Lasciare all’apice, da giovane o più in là negli anni è una scelta individuale e in tal senso non va giudicata. È un discorso, questo, che vale non solo per una Lindsey Vonn o un Roger Federer; ma pure per chi fa una carriera di tutto rispetto senza essere sempre sulle prime pagine dei giornali. Si tratta, per tutti gli sportivi, di fare un lavoro sia individuale dell’atleta sia collettivo con il proprio entourage, per capire se la voglia di qualcos’altro diventa più importante del piacere di far parte di un mondo comunque particolare come quello dello sport d’alto livello.